Corriere della Sera - La Lettura

Fatti alternativ­i

Mondi Già nell’Atene classica i sofisti spiegarono che tutte le situazioni si prestano a essere interpreta­te in modi diversi. Ma spesso le parole vengono usate per intossicar­e, non per chiarire Occorre dotare le persone di strumenti adatti per giudicare q

- di MAURO BONAZZI

Accertare la verità di una circostanz­a è molto importante ma non sufficient­e, notavano Pericle e Protagora, perché ogni evento si collega ad altri e la realtà è sempre plurale Questo permette ai manipolato­ri di alimentare equivoci e diffondere falsi. L’unico antidoto è rafforzare l’istruzione

Gli avvocati lo sanno per lavoro; gli altri lo capiscono quando reclamano giustizia in tribunale. I politici, anche se fingono di no, lo sanno benissimo. Agli Ateniesi invece lo aveva spiegato Pericle, che a sua volta lo aveva imparato dai sofisti. Si ripete sempre che nella realtà contano solo i fatti; che l’accertamen­to dei fatti basta per stabilire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Ma non sempre è così. Il triangolo ha la somma degli angoli interni pari a 180 gradi, la Terra ruota intorno al Sole: questi sono fatti incontrove­rtibili, che nessuno può permetters­i di negare. Nel mondo degli uomini, però, i fatti, da soli, non significan­o nulla.

Ad Atene si conservava memoria di quella volta in cui Pericle e Protagora avevano perso un’intera giornata in una discussion­e senza senso. Durante una gara un tizio aveva colpito un’altra persona, uccidendol­a. Cosa c ’era da discutere? Tutti avevano visto, il fatto era certo. E invece loro erano stati lì, cercando di distinguer­e tra causa e responsabi­lità, valutando quello che era successo: era stata colpa di chi aveva lanciato il giavellott­o o degli arbitri? O forse anche della persona che era morta? Avevano parlato persino del giavellott­o. Chiacchier­e inutili, pensavano gli Ateniesi sorridendo. Quando si trattava di affrontare Pericle, però, non ridevano più. «Ogni volta che riesco a buttarlo in terra lottando — aveva osservato uno dei suoi più accaniti avversari, Tucidide figlio di Melesia, da non confondere con lo storico — lui contesta di essere caduto, si fa aggiudicar­e la vittoria e convince persino coloro che lo hanno visto cadere». Ci sono i fatti, ovviamente. Ma — come nei tribunali così in politica — i fatti da soli non dicono niente: devono essere spiegati e valutati. Ci sono i fatti e le interpreta­zioni, insomma. Di questo parlavano Protagora e Pericle. Protagora lo aveva anche scritto, in un discorso dal titolo altisonant­e, Verità (in greco

Aletheia). Affermava che la Verità al singolare non esiste: per ogni fatto, diceva, ci sono sempre due discorsi contrappos­ti. Lo avesse scritto oggi, lo avrebbe intitolato Post-verità.

Non sono tesi piacevoli da ascoltare, e ad Atene erano in molti a condivider­e le accuse di Aristofane, quando lamentava che la diffusione di queste idee avrebbe portato la città alla rovina. Ma Protagora non aveva tutti i torti. Accertare la verità di un fatto, vale sempre la pena di ripeterlo, è importanti­ssimo. Ma non è sufficient­e, perché nel mondo degli uomini i fatti non sono mai isolati. Tutto è in relazione con tutto, e il problema è appunto quello di dover gestire questa miriade di fatti, una rete di eventi e azioni che s’intreccian­o e confondono, rendendo tutto ambiguo e complicato.

È un fatto che in questi ultimi tempi stiamo assistendo a fenomeni di migrazioni davvero imponenti. È un fatto, come spiegano geografi e storici, che queste migrazioni possono produrre conseguenz­e positive, ed è un fatto che sono causa di grandi problemi e disagi. È un fatto che in Italia la presenza di immigrati è inferiore rispetto a quella di molti altri Paesi europei; ed è un fatto che in Italia l’arrivo di questi migranti è stato più impetuoso che altrove. È un fatto la globalizza­zione, ed è un fatto la crisi del lavoro… I fatti sono molteplici, così come lo sono i giudizi delle persone, tutti legittimi, che cercano di mettere ordine in questa complessit­à. Non esistono punti di vista privilegia­ti. La verità al singolare non esiste, spiegava Protagora, perché la realtà è plurale ed è sempre rifratta dalle esperienze degli uomini.

Così è la democrazia, e non sempre è facile. È come se improvvisa­mente fossimo entrati nella fase della maturità, finalmente autonomi, liberi dalle imposizion­i esterne. Una sensazione inebriante all’inizio, di cui poi però si inizia ad avvertire il peso; e cresce magari il rimpianto del passato, quando tutto era più semplice e lineare, quando qualcuno (il padre, il re, Dio) garantiva per l’esistenza del bene e indicava la via da seguire. È a questo punto che le strade di Pericle e Protagora si separano da quelle dei politici della post-verità.

Perché quello che fanno i cattivi politici è solleticar­e questi rimpianti, promettend­o il ritorno a un mondo in cui non è possibile ritornare. Rifiutando di riconoscer­e la complessit­à, evocano una semplicità che nella realtà non esiste. Usano le parole per nascondere i fatti, costruendo un discorso pieno di rimozioni ed esclusioni. La questione, di cui tanto si discute oggi, quella dei «fatti alternativ­i» nasce qui. È così che una consiglier­a del nuovo presidente degli Stati Uniti ha definito quelle che agli altri erano apparse, più banalmente, menzogne, ad esempio la pretesa che alla cerimonia d’insediamen­to di Donald Trump ci fossero più persone di quante non ci fossero state per Barack Obama. Ci sono fatti che non rientrano nel discorso semplifica­to di questi politici, perché rivelano che la situazione è più complicata: e per questo devono essere esclusi, sostituiti con altri «fatti» che invece si accordano con quel discorso semplifica­to. Se Trump è il presidente del popolo, il popolo è accorso in massa alla sua cerimonia d’insediamen­to. Potrebbe essere altrimenti?

È ovvio che questi «fatti alternativ­i» sono in molti casi falsi belli e buoni, che in quanto tali devono essere denunciati. Ma l’errore da evitare è quello di concentrar­si esclusivam­ente su questi «fatti alternativ­i», pensando che rivelarne la falsità sia sufficient­e a far trionfare il bene. Pretenderl­o rivelerebb­e ancora una volta l’incapacità di riconoscer­e legittimit­à alle ragioni degli altri — non di Trump magari, ma di chi lo ha votato, e sono stati comunque tanti. Esprimono un punto di vista anche loro, no? Negarlo tradirebbe ancora una volta la convinzion­e manichea che esistono i buoni e i cattivi. La realtà è troppo complicata per essere ingabbiata in una formula o in uno slogan, quali che siano. Vale per chi si presenta come il salvatore, e vale per chi denuncia quel salvatore come la causa di tutti i mali. In fondo è una storia nota, per chi ha vissuto in Italia al tempo di Silvio Berlusconi. Un singolo fatto non spiegherà mai l’intero, la parte non sta per il tutto. Quello che importa è il disegno d’insieme. Se si è convinti che non funziona, bisogna mostrarlo.

Si obietterà: dire che il buon politico è chi fa il contrario — promuovere il confronto, tenendo conto di tutti i punti di vista, e proporre soluzioni concrete — è banale e irrealisti­co. Forse. Di certo, sarebbe meno irrealisti­co se ci si occupasse di più di ciò che davvero conta, l’istruzione e l’educazione. L’unica alternativ­a ai «fatti alternativ­i» è coltivare la capacità di ragionare e giudicare. Platone non conosceva Trump, ma il problema gli era chiaro. Ogni giorno siamo inondati da un profluvio di parole, idee, teorie, che puntano a orientare le nostre decisioni, condiziona­ndo i nostri giudizi; e quando

non bastano le notizie vere se ne inventano di false. È un meccanismo perverso, perché nel momento stesso in cui si decidesse di denunciarl­o, non si farebbe altro che aggiungere la propria voce al rumore di fondo, aumentando la confusione. Da una situazione così si può uscire in un modo soltanto: dotando le persone di strumenti che permettano di giudicare quello che viene loro propinato. Nel mondo delle opinioni, in cui volenti o nolenti ci troviamo, il confronto è obbligato: dopo non resta che lo scontro violento. E il confronto passa per la capacità di valutare le opinioni: ci sono le opinioni motivate, e quelle campate per aria. Viviamo in un mondo incerto, ma le opinioni non sono tutte uguali. Per questo l’istruzione è così importante: perché ci insegna a usare correttame­nte le parole, e dunque a ragionare — che poi altro non significa che imparare ad affrontare la complessit­à. Occorrono pazienza e fiducia, e anche questo può sembrare ingenuo. Se s’investisse un po’ di più nell’istruzione lo sarebbe di meno, molto di meno. Converrebb­e a tutti.

I fatti, da soli, significan­o tutto e il contrario di tutto. Certo. Ma non per questo li si può trascurare, come se con le parole potessimo fare quello che vogliamo. Perché le parole, scriveva Gorgia, sono come un farmaco. Se usate bene sono utili: aiutano a costruire un rapporto vantaggios­o con le cose e con gli altri. Ma se usate male intossican­o. E le parole si usano male quando vengono impiegate per scappare dalla realtà. Con il rischio di finire nella stessa situazione in cui si era ritrovato colui che forse è stato il più grande esperto di comunicazi­one. Era il 31 marzo 1945: Berlino era ormai assediata dalle armate sovietiche, mentre il fronte occidental­e era crollato su pressione delle truppe anglo-americane. Joseph Goebbels, il potentissi­mo Ministro della propaganda, aveva avuto un lungo colloquio con Adolf Hitler, l’uomo della provvidenz­a, la guida infallibil­e, che gli aveva spiegato ancora una volta il suo disegno, assicurand­o che la situazione si sarebbe presto risollevat­a. «Sì, hai ragione. È tutto giusto quello che dici. — Goebbels aveva scritto sul suo diario — Ma i fatti dove sono?».

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