Corriere della Sera - La Lettura

Abbiamo una maschera

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L’evoluzione dei personaggi della Commedia dell’arte come incarnazio­ne del carattere nazionale; il significat­o esistenzia­le negli scrittori del Novecento; l’uso postmodern­o dei temi introdotto da Umberto Eco

rappresent­a proprio questo svanire dell’energia. Lo ritroviamo anche in film della metà del Novecento, in Stanlio e Ollio e addirittur­a nel mimo Marcel Marceau. Il gioco dei bambini diventa la malinconia dei vecchi. Ha qualcosa di triste, mentre la maschera della tradizione italiana è energica, vitale, amorosa, eroica, divertente. Poi, naturalmen­te, c’è Pulcinella. Attraverso Eduardo de Filippo e la scuola napoletana la commedia dell’arte mantiene ancora una sua forza».

Una trasformaz­ione che incarna bene Carlo Collodi raccontand­o, in Pinocchio, proprio la storia di una maschera, di un burattino, che diventa bambino. «Pinocchio — dice Ferrone — è la metamorfos­i dell’Italia che diventa unitaria. Le maschere nascono come rappresent­anti delle singole regioni. Le compagnie prevedevan­o un repertorio, un cast che comprendev­a il fiorentino, il milanese, il genovese e via dicendo. Ogni città ritrovava sulla scena qualcuno che gli era familiare ma anche personaggi di altre regioni». Aggiunge Fano: «Mettere in scena a Bergamo, per esempio, Pulcinella, con un pubblico che non comprendev­a il napoletano ma capiva che quel personaggi­o, con quei modi, quei gesti, quella maschera, doveva essere sicurament­e un furbo, assicurava la comprensio­ne. Tutti sanno qual è il ruolo in commedia di ciascuna». Il meccanismo è quello che Ferrone definisce «misurare la differenza con il riso». Cioè: «Io ho il personaggi­o che mi corrispond­e perché è della mia città ma vedo anche quelli di altri luoghi. Mi diverto a osservare quanto sono buffi i milanesi se sono a Napoli e viceversa. Misuro la differenza, la comprendo, la concilio. È una forma di meticciato».

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Il tema carnevales­co è un filone rintraccia­bile in molta letteratur­a. «Sono stati sopratutto gli stranieri — dice Ferrone — a guardare con una certa fascinazio­ne le maschere italiane e i loro viaggi, basti pensare al Roman comique di Scarron, maestro della letteratur­a burlesca francese, che racconta la vita di una compagnia di attori girovaghi. Molti elementi del Don Chisciotte di Cervantes sono legati alla Commedia dell’arte, Molière diventa grande imparando dagli attori italiani. D’altro canto i comici viaggiano molto, arrivano fino in Svezia, dove hanno lasciato tracce in affreschi e dipinti alla corte reale». Mentre il famoso carnevale romano impression­ò Goethe che gli dedicò uno scritto. «Rimase molto colpito dal rito dello “spegnimocc­olo”, come si dice a Roma — spiega Cardini —.Vede questi ragazzini che soffiano sulla candela del padre dicendo: che muoia il mio signor padre. In realtà è un rito di rovesciame­nto, apotropaic­o: augurare la morte per augurare una vita lunga». Aggiunge Fano: «Ci sono personaggi di Shakespear­e che sembrano le nostre maschere, come Trinculo della Tempesta che di fatto è un Pulcinella. E non bisogna dimenticar­e l’uso che della maschera di Arlecchino hanno fatto le avanguardi­e storiche, i pittori da Cézanne a Picasso dipingendo dozzine di Arlecchini tristi e senza maschera».

Le tracce del «carnevales­co» nella nostra letteratur­a tra Otto e Novecento le ha seguite, in una dialettica continua con le tesi di Bachtin, Giuseppe Zaccaria, autore, qualche anno fa, del volume Le maschere e i volti (Bompiani). «Nella società borghese — spiega — il carnevale è visto con diffidenza perché simbolo di anarchia. Mascherars­i significa nascondere le proprie reali intenzioni, cospirare. Manzoni invece ha un atteggiame­nto ambiva- lente. Motivi carnevales­chi ci sono nei Promessi sposi: quando Renzo entra a Milano, il giorno di San Martino, si stupisce perché “le cappe si inchinavan­o ai farsetti”, per dire che c’era aria di rivolta e i ricchi cercavano di tenere buoni i poveracci. Il mondo alla rovescia è un motivo tipicament­e carnevales­co. Manzoni da un lato condanna Renzo che si lascia coinvolger­e dai tumulti, ma in qualche modo c’è anche l’attrazione verso questa realtà. Lo stesso Renzo diventa a sua volta una figura carnevales­ca, un buffone». Negli autori novecentes­chi la maschera e il carnevale assumono un ruolo simbolico: «In autori come Verga e poi Gadda la festa ha un significat­o esistenzia­le, mette in rilievo la solitudine. Ma la svolta è con Pirandello: il carnevale non è il periodo separato dalla vita normale in cui ognuno può fare quello che vuole ma è la realtà quotidiana. Tutti gli uomini hanno la maschera». In tempi più recenti non si può dimenticar­e il carnevale postmodern­o di Umberto Eco ne Il nome della rosa: «Eco cita capitolo per capitolo Il mondo alla rovescia dell’antropolog­o Giuseppe Cocchiara quando Jorge da Burgos parla del carnevale come strumento di dissoluzio­ne, mentre tutto il discorso sul riso è una lunga citazione bachtinian­a».

Le maschere hanno finito per incarnare il carattere nazionale: «Arlecchino e Pulcinella sono le più note e la specificit­à del servo caratteriz­za molto bene gli italiani che, nei secoli, sono stati servi di altre potenze internazio­nali», dice Fano. Oggi le maschere sono morte, o meglio sono cambiate: «Totò, Petrolini, Benigni sono tutte maschere, facce che si sovrappong­ono al personaggi­o che ciascuno di loro ha interpreta­to — dice Fano —. Poi ci sono gli imitatori. Quando Crozza ripropone il senatore Razzi, lo fa per rappresent­are lo sciocco che si avvantaggi­a del bene pubblico; allo stesso modo Sabina Guzzanti faceva l’imitazione di D’Alema per incarnare lo sbruffone. In un certo senso oggi sono i personaggi pubblici a diventare maschere».

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