Corriere della Sera - La Lettura
SPINGERSI OLTRE L’UMANO IN OCEANIA
Ricercate e non di rado predate per esporle nei musei occidentali, le maschere sono tra gli oggetti più diffusi nelle società tradizionali dell’Oceania, specie in Melanesia. Esse sono spesso ricondotte dallo sguardo esterno a stili pensati come immutabili e legati in modo rigido a un territorio. In realtà gli stili artistici «viaggiano», seguendo i percorsi delle relazioni interetniche e inter-insulari. Viaggiano e mutano: la maschera è sperimentazione, creatività, immaginazione dell’umano e dell’oltre umano. Addentrarsi nei significati delle maschere dell’Oceania e nei contesti mitologici, religiosi e performativi in cui «prendono vita» è un’operazione complicata, perché riflette gli immaginari sulla vita sociale, sui cambiamenti di status (adulto, anziano, leader politico, antenato), sulle relazioni tra i sessi, sul rapporto con la morte e gli antenati.
Qualche breve esempio. Gli Elema di Papua Nuova Guinea producevano una maschera detta kovave. Il nome indica spiriti mitici del tempo della Creazione residenti nella foresta. La comparsa della maschera indicava il loro ritorno tra gli umani al fine di favorire l’iniziazione dei giovani. Gli iniziandi le indossavano per più di un mese, durante il quale ricevevano doni e omaggi come se fossero antenati, e infine le bruciavano. Le società dell’isola della Nuova Irlanda sono tra le più note fabbricatrici di maschere. Le tatanua rappresentavano la più importante delle tre anime di una persona. In genere venivano utilizzate nei riti funebri. Sempre in Nuova Irlanda, la produzione di maschere e sculture malagan (usate nei riti funebri) era uno dei principali stimoli all’economia. Le maschere funebri dei kanak della Nuova Caledonia, confezionate con capelli umani, piume di uccello e peli di volpi volanti, venivano indossate nel Nord a rappresentare importanti capi deceduti. Nel Sud dell’isola principale potevano invece servire per pantomime di miti locali.