Corriere della Sera - La Lettura
Western senza pistole (ma non sembra)
Thomas Savage è un antesignano di Proulx e McCarthy: natura incombente, personaggi non banali, violenza dei rapporti. Come in questa storia uscita mezzo secolo fa e ora riproposta
Prendete uno scrittore che comincia il suo romanzo con queste parole: «Era sempre Phil a occuparsi della castrazione». E capirete fin dalla prima riga che ciò che ha in serbo per i lettori è una storia dominata dall’ethos della virilità e dalla violenza. Ecco come Phil procedeva al suo compito con i tori: «Prima tagliava via la sacca dello scroto e la buttava da parte, poi strizzava fuori uno dopo l’altro i testicoli, incideva la guaina che li racchiudeva, li strappava e li gettava nel fuoco, dove erano pronti i ferri incandescenti per la marchiatura».
Si entra così nel duro mondo de Il potere del cane di Thomas Savage, un romanzo Western del 1967 ottimamente tradotto da Luisa Corbetta e ripescato come un «grande libro dimenticato» sulla scia di Stoner di John Williams (Neri Pozza, ma Ponte alle Grazie lo aveva già pubblicato nel 2003 con la stessa traduttrice). Solo che in questo caso la violenza a cui Savage ci introduce con tanta efficacia nell’incipit non è fine a se stessa ma un’ombra che si proietta su tutto l’arco di questo psicodramma ambientato negli anni Venti in un ranch ai piedi delle Montagne Rocciose, tra mandrie gigantesche, duro lavoro, inverni rigidi e venti implacabili: forse l’unico Western in cui non si spari nem- meno un colpo di pistola. Se nessuno ne sente il bisogno, è perché la violenza nella sua forma repressa è più che sufficiente a creare la suspense di una storia dominata dai difficili rapporti fra i quattro personaggi — i due fratelli Phil e George Burbank, la moglie di quest’ultimo, Rose, e l’adolescente figlio di lei da un precedente matrimonio, Peter — in un setting che richiama alla memoria certe storie di Annie Proulx e Corman McCarthy, sebbene Savage — l’autore di tredici romanzi, nato nel 1915 a Salt Lake City e morto nel 2003 appena in tempo per vedere Il potere del cane rilanciato negli Stati Uniti — sia stato di fatto un loro predecessore.
Phil e George Burbank sono dunque i ricchi ed eccentrici proprietari di un ranch immenso che dà lavoro a decine di mandriani stagionali nello Utah. Ma non si somigliano. Phil è un uomo fisicamente rude e intellettualmente sofisticato, che sarebbe addirittura bello se non si trascurasse nell’aspetto fino ad andare in giro sporco, puzzolente, e vestito come un operaio. È anche un abile giocatore di scacchi, un ottimo suonatore di banjo, un lettore di filosofia e letteratura, un conversatore brillante e un sadico che gode a umiliare le donne, gli ebrei, gli indiani e soprattutto i ragazzi effeminati, le «femminucce», sissies, nell’originale. George per contro è lento, pesante, bonario, legge solo qualche giornale ed è privo di vocazioni ma è un uomo gentile e profondamente onesto. Phil l o chiama, con affettuosa ferocia, fatso, grassone. E George lo lascia fare. Ormai quarantenni, i due fratelli dormono ancora insieme nella stanza che avevano occupato da bambini nella grande casa di legno, dopo che i loro eleganti genitori — «il Vecchio Signore» e «la Vecchia Signora» — si sono trasferiti per comodità in una suite del migliore albergo di Salt Lake City. Scrive Savage: «Nessuno dei due fratelli si era mai mostrato nudo all’altro; la sera, prima di spogliarsi, spegnevano la luce elettrica, la prima di tutta la valle». E la loro vita scorrerebbe immutabile in questa simbiosi quasi incestuosa se un giorno George non annunciasse a Phil di avere sposato a sorpresa la graziosa vedova che gestiva la locanda di Beech, il paese vicino. E qui cominciano i problemi. Non tanto perché Rose sia socialmente inferiore ai Burbank o perché suo figlio Peter sia un ragazzo solitario e taciturno che i mandriani e Phil chiamano «femminuccia». Ma perché la rabbia con cui Phil reagisce al nuovo ordine famigliare sembra nascondere qualcosa di più del rifiuto del cambiamento.
Da questo momento in poi, Phil umilia e sfida in tutti i modi possibili la fragile Rose, che disperata si attacca alla bottiglia; George fa finta di non vedere ma soffre per l’andamento del suo matrimonio; e Peter, l’unico abbastanza sensibile da avere compreso che l’omofobia di Phil e i suoi atteggiamenti ostentatamente virili nascondono un’omosessualità repressa, medita la sua vendetta con gelida precisione.
Si può leggere Il potere del cane come un romanzo che appartiene all’epoca d’oro della narrativa americana del paesaggio — si pensi a Willa Cather, Faulkner, Steinbeck e Hemingway — in cui il viola delle montagne all’alba, il grigio dei fili d’erba ghiacciati e i fulmini di temporali terrificanti sullo sfondo, spingono trama e personaggi come un motore silenzioso. Ma si può anche leggerlo come l’opera autobiografica di un autore cresciuto in un ambiente assai simile a quello dei Burbank, il quale dall’osservazione di questi aristocratici del West che solo due generazioni prima erano pionieri, ha tratto l’esperienza che gli ha permesso di definire i loro valori, passioni e idiosincrasie. E di dar vita a un personaggio di grande complessità come Phil Burbank: un concentrato di contraddizioni, un uomo malvagio eppure capace di lealtà, un intellettuale, un musicista, un castratore di tori e un omosessuale represso, la cui nemesi, inevitabilmente, sarà una «femminuccia».
Laggiù nello Utah Due fratelli sono i ricchi ed eccentrici proprietari di un ranch immenso che dà lavoro a decine di mandriani ma non si somigliano