Corriere della Sera - La Lettura
Ottantasette personaggi, animali esclusi
Vincenzo Pardini affolla di figure la trama del suo nuovo romanzo, che si svolge lungo un secolo in Garfagnana, con affacci sull’America e sul Belgio. Una parabola di dolore e di memoria
Narrativamente, è un Pardini inusuale quello di Grande secolo d’oro e di dolore. Non tanto perché sin qui il Pardini migliore si è offerto nella misura breve del racconto, al punto da identificarvisi, nonostante abbia in catalogo, e sin dall’esordio, diversi romanzi, l’ultimo dei quali, Il postale, m’aveva peraltro destato qualche perplessità; quanto per la misura, ma soprattutto per la tematica e per il modo di orchestrare il tutto. Perché con queste 356 pagine Pardini ha deciso di attraversare l’intero Novecento, per di più facendo di quest’opera una sorta di cerniera, e al tempo stesso di continuità tra quei due modi di raccontare.
Una continuità perché, a ben vedere, la forma-romanzo che si snoda senza soluzione di continuità e senza suddivisione capitolare, nel suo distendersi narrativo si dà come racconto di vite, a loro volta ricche di racconti. Vite che ruotano attorno alle figure di Basilio Borromei ma soprattutto della moglie Leonide Lusetti dei Longobardi, vero perno di questo secolare peregrinare narrativo anche del lettore dentro il loro microcosmo, a sua volta prigioniero del microcosmo della Garfagnana; universi nei quali la storia sembra entrare solo per apportare dolore, mentre la modernità, metaforizzata in una carrozzabile che vien tracciando «una sorta di lunga, contorta ferita, con rocce dilaniate e terra divaricata», fa sentire i protagonisti violentati nella loro ancestralità. Una violenza per certi aspetti più subdola persino della fascista e nazista in tempo di guerra, perché impossibilitati a difender da «forestieri di ogni risma» la «sacralità» dei silenzi dell’Alpe, mentre il tempo va corrodendo gli «antichi equilibri della convivenza», «il culto della famiglia patriarcale» e la «memoria dei morti».
Un «piccolo grande mondo cancellato» dal quale si usciva solo per emigrare: in Sudamerica, come il padre di Basilio, che invano cercherà di fare giungere a sé anche il figlio; o in Belgio, come Vasco, marito di Artemisia, figlia di Leonide, la quale farà di tutto per tornare «a casa».
Ne viene una struttura da affabulazione, messa in forma scritta da un erede di questi enormi beni che sono le storie di vita, affidate anche a lettere e versi, identificabile in Fiorenzo, figlio di Artemisia, il cui legame col proprio ceppo sta nel suo stesso nome ereditato dal bisnonno emigrato, col quale ha inizio questa storia sul finire dell’Ottocento. Un erede, Fiorenzo, destinatario pressoché unico dei racconti di Leonide; i quali, al pari di brevi flashback memoriali a richiamare episodi trascorsi da Basilio e qualche altro personaggio della famiglia, svolti ora in forma di pensiero, ora anche di racconto, costituiscono la tramatura di questo romanzo che alfine fa vivere 87 figure, peraltro per gran parte ben caratterizzate nella loro fisicità e umoralità quando si accampano nella pagina.
Ottantasette vite che si trovano a com- battere quotidianamente sul tapis roulant del tempo e di una Storia che non è però mai centrale ma semmai accennata per quanto comporta di forme reattive dei protagonisti, si tratti di guerre, lotte partigiane, iniziative del fascismo e altro ancora. Perché a orchestrare il racconto è soprattutto quel continuo incrociarsi, spiarsi, irridersi, amarsi di dolenti figure umane quanto mai parche di parole — per di più ora sussurrate, ora depositate in versi beffardi — ma ricche di memoria e di sguardi, nei quali leggi rancori, invidie, affetti, interessi, voglie. E non solo: perché l’universo microcosmico di Pardini, sempre riccamente popolato anche di animali reali (topi, cani, vacche, galli e galline, muli, porci) come pure da leggenda, come l’uccello con quattro ali, è un mondo primitivo nel quale si mescolano inestricabilmente crudeltà e innocenza, ingenuità e tragico, dolcezza e asprezza; nel segno d’una ancestralità anche epica per uomini e bestie, sempre però screziata di malinconia, sottolineata dal ricorso a proverbi o dal dar conto (talora però con eccesivo didascalismo) di quanto attiene a quella vita (dai lavori al divertimento).
Senza dimenticare la presenza dei morti: che inquieti si aggirano e manifestano ai viventi, come fa Basilio con la sua Leonide. Un Basilio instabile ed estroso, segnato da un’innata solitudine (lemma, questo, assai frequente) e che avverte la vita come «ostile». E una Leonide cui «niente di quello che appare è vero, ma finzione, sempre finzione», in fuga dal paese per l’Alpe ma soprattutto «veterana di subbugli interiori» con «un tormento che di continuo le attanagliava lo stomaco», che sceglie di vivere «dentro un eterno presente», pur amando parlare del passato, perché «le storie che lei raccontava dovevano essere necessarie alla vita» e servivano anche a far rivivere gli antenati, e il cui dialogare con gli spiriti cogli anni si va facendo sempre più pregnante.
Un’orchestrazione dai toni variegati, che Pardini deposita in una prosa che pesca nel lessico della sua terra, traducendolo in un periodare ora secco e conciso, ora espansivo, nel riuscito tentativo di ridonare alle voci dei personaggi principali la misura degli «umori dell’anima».
La prosa Lo stile pesca nel lessico della sua terra, traducendolo in un periodare ora secco ora espansivo che misura gli «umori dell’anima»