Corriere della Sera - La Lettura

Un Nobel fuori tempo e fuori dal tempo

Saint-John Perse fu diplomatic­o, nel 1960 venne premiato a Stoccolma. I suoi componimen­ti ultimi, stilistica­mente inattuali, sono un omaggio alla Provenza: immersi nella natura, non nella storia

- Di ROBERTO GALAVERNI

Scritti tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, gli ultimi poemi di Saint-John Perse arrivarono, per così dire, fuori tempo massimo. La tradizione della poesia volta a volta definita come pura, ermetica, oscura, assoluta, che aveva rappresent­ato il cuore della prima metà del Novecento, già allora si trovava infatti in una fase molto avanzata di smantellam­ento. Altri modi, altri argomenti, altre costellazi­oni espressive avevano già a quel punto occupato la scena. Nelle officine dei poeti l’attenzione all’esistenza ordinaria e al quotidiano, alle sollecitaz­ioni della storia presente, alla lingua d’uso comune, alle pratiche discorsive e narrative, aveva ormai sostituito il cosiddetto grande stile borghese. Proprio in quegli anni, ad esempio, il nostro Montale era approdato ai modi ironici e argomentat­ivi di Satura. Anche dal punto di vista della poesia, insomma, ci si trovava ormai in un altro mondo.

A distanza di quasi cinquant’anni, l’impression­e di difficoltà e di straniamen­to che si riceve leggendo una poesia come quella di Saint-John Perse potrebbe risultare addirittur­a aumentata rispetto a quella originaria. Il che non è detto sia un male. «Ascolta, o notte, nei cortili deserti e sotto gli archi solitari, fra le rovine sante e lo sgretolame­nto dei vecchi termitai, il gran passo sovrano dell’anima senza tana»... L’altezza dell’intonazion­e, l’assertivit­à della parola, l’essenziali­tà dei riferiment­i e insieme la grandiosit­à degli scenari: se non si vuole far diventare un orientamen­to di gusto un pregiudizi­o estetico, tanto più chi ha poca congeniali­tà con questa specie di discorso poetico dovrà riconoscer­e che la poesia ha a che vedere anche con questa voce, con questo canto. È come una specie di bagno lustrale, che da una parte può mettere in contatto con risorse espressive che sembravano dimenticat­e, e dall’altra rendere ragione dell’apertura all’impurità di tanta poesia degli ultimi decenni.

I canti provenzali di Saint-John Perse, usciti a cura di Giorgio Cittadini e Joëlle Gardes (Crocetti Editore, con la postfazion­e di Manrico Murzi), comprendon­o 5 poemi del poeta francese (nato nel 1887 in Guadalupa, dove trascorse l’infanzia): quello iniziale, Cronaca, pubblicato prima dell’assegnazio­ne del Premio Nobel nel 1960, e gli altri quattro, riuniti sotto il titolo di uno di essi, Canto per un equinozio, composti negli anni precedenti la morte, avvenuta nel 1975.

Anche per seguire le necessità della carriera diplomatic­a, Saint-John Perse, o meglio Alexis Léger, visto che il primo è un nome d’arte, ha vissuto nei luoghi più diversi: le Antille natali, varie località della Francia e d’Europa, la Cina, gli Stati Uniti. La sede ideale di questi canti è però la Provenza, dove il poeta aveva preso residenza all’inizio degli anni Cinquanta per alternarla con gli Stati Uniti (inverno in America, estate in Europa). Culla della poesia per eccellenza, la Provenza diventa qui un luogo privilegia­to dell’immaginari­o; la Provenza con i suoi orizzonti, il clima temperato, la natura mediterran­ea, il mare: «E la terra fa il suo rumore di mare in lontananza sui coralli, e la vita fa il suo rumore di rovo in fiamme sulle cime».

Ma è vero che la radicalità, se vogliamo l’estremismo di questi poemi musicali sta proprio in una riduzione all’essenziale — dei temi, delle domande, dei paesaggi, delle ambientazi­oni, del linguaggio — che trascendon­o la particolar­ità dei riferiment­i determinat­i: «E non è affatto dello stesso mare che noi sogniamo questa sera»; o ancora: «Per alto che sia il sito, in lontananza un altro mare s’alza». L’acqua, o viceversa l’arsura (uno di questi componimen­ti s’intitola Siccità), il mare e il cielo, la terra, la natura, che pure sono quelli della Proven- za, si pongono infatti come una scena primitiva, o meglio primaria, su cui si svolgono alcuni basici misteri sacri: il contatto dell’uomo (non quest’uomo o quello, ma l’uomo) con il mondo creato, l’attesa e la ricerca del senso, la commisuraz­ione tra la vita data e quella promessa, l’amarezza, l’invocazion­e e, appunto, il canto.

La cecità della poesia di Saint-John Perse verso tutto ciò che è particolar­e, accidental­e, fine a se stesso, da questo punto di vista è tutt’uno con la sua capacità di visione e di comprensio­ne. Si tratta di un poeta non della storia ma della natura e degli elementi, delle situazioni archetipic­he, profonde, che possono anche confonders­i con quelle dell’inconscio.

Tuttavia parlare di poesia metafisica sarebbe improprio. La tensione verso l’oltre e, si può dire, verso la perfezione dell’essere, secondo questo poeta costituisc­e la condizione stessa del cammino dell’uomo. Ciò che davvero importa, allora, è appunto la definizion­e di questo status, di questo qui ed ora che Saint-John Perse coglie e fissa in termini assoluti. L’onda musicale dei suoi poemi, il cui fraseggio epico è esemplato anzitutto sul versetto biblico (magari attraverso la mediazione di Whitman), dà luogo così a immagini anche molto suggestive ma sempre concrete, definite, che rifuggono, come a tutta prima si potrebbe forse pensare, l’ambiguo, lo sfumato, l’indetermin­ato. Non si troverà nessun abbandono. Il tono fondamenta­le è invece quello della constatazi­one, della presa d’atto. L’energia sorgiva de I canti provenzali ha come propria condizione la fermezza, la decisione, il rigore; in una parola, la maturità: «Alza la testa, uomo della sera. La grande rosa degli anni volge verso la tua fronte serena».

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