Corriere della Sera - La Lettura
La guerra della Cia all’Isis comincia in Laos nel 1960
Il conflitto segreto anticomunista nel Paese indocinese fece 200 mila vittime. Secondo Joshua Kurlantzick, è stato il modello per operazioni future: eserciti per procura, omicidi mirati. Ora si usano i droni, allora i combattenti hmong
Tony Poe dava un’ interpretazione personale alla già innovativa nozione di conflitto non dichiarato. Quando un funzionario dell’ambasciata americana a Vientiane, capitale del Laos, aprì il sacco abbandonato da Poe al sole, svenne scoprendo che conteneva orecchie umane mozzate, bottino di quell’uomo che la Cia aveva spedito nel Nord del Paese. E quando Poe convinse un pilota a volare basso sulle posizioni dei nordvietnamiti che sostenevano la guerriglia comunista, lo fece per buttare giù le teste che aveva tagliato ai loro commilitoni. «È la guerra, e la guerra è un inferno», diceva a chi gli facesse notare i suoi metodi eterodossi.
Fu anche grazie all’eccentrica ferocia (e all’efficienza cinicamente assecondata) di persone come Tony Poe, nato Anthony Poshepny, che gli Stati Uniti poterono condurre negli anni Sessanta la «guerra segreta» in Laos, Paese considerato talmente strategico nel quadro della Guerra fredda da risultare al primo posto tragli argomenti delb rie fing che il presidente Dwight Eisenhower tenne per il successore John Fitzgerald Kennedy, fresco vincitore delle elezioni del 1960. Il regno indocinese, conteso fra i monarchici che avevano malamente colmato il vuoto degli ex colonialisti francesi e i comunisti del Pathet Lao, era un «tappo della bottiglia». Che doveva tenere perché un effetto domino non facesse cadere l’intero Sudest asiatico in mano ai «rossi».
Guerra segreta due volte, in Laos. Ai tempi e ora. A Washington sottratta ai passaggi politici e costituzionali di una guerra convenzionale. E, dopo il 1975, omessa dalla coscienza di buona parte dell’America e dall’attenzione del mondo. L’opacità fu la strategia deliberata della Cia, l’agenzia d’intelligence che dal 1960-61 organizzò l’Operazione Momentum per armare, addestrare e guidare un esercito di locali — etnia hmong — contro i comunisti laotiani e nordvietnamiti. Vicenda non ignota, certo, ma che adesso Joshua Kurlantzick, del Council on Foreign Relations, affronta in A
Great Place to Have a War ricorrendo anche a fonti della Cia declassificate e a interviste di prima mano. Soprattutto, e qui sta il nocciolo del lavoro, la guerra in Laos costituì «un modello» che la Cia avrebbe applicato in seguito nel mondo, dal Sudamerica all’Afghanistan e al Medio Oriente. La storia stessa della Cia si divide in un prima e un dopo Laos: «Nessuna agenzia di spionaggio al mondo aveva lanciato un’operazione paramilitare così massiccia, attacchi aerei compresi, con così cospicui contingenti di forze, e a volte la gestione strategica complessiva dei combattimenti» e da quel momento in poi «i suoi capi avrebbero visto le operazioni paramilitari come una parte essenziale della mission dell’agenzia, e molti altri attori politici americani avrebbero accettato il fatto che la Cia fosse in grado di condurre una guerra al pari delle forze armate tradizionali».
L’impronta dell’Indocina, per Kurlantzick, è ben visibile oggi: «La mutazione cominciata laggiù è culminata dopo l’11 settembre 2001, quando la Cia si è concentrata in operazioni paramilitari», supervisionando «omicidi mirati in tutto il mondo», organizzando eserciti per procura in Africa e Asia, gestendo «il suo programma di attacchi con i droni per eliminare membri dell’Isis in Siria e altre parti del Medio Oriente». Restano in gran parte in piedi anche le motivazioni che in Laos fecero preferire lo schema di una guerra «non costosa, almeno in termini di denaro e vite americane» a qualunque dispiegamento convenzionale (anche se arrivò a richiedere un budget che nel solo 1970 toccò l’equivalente di 3,1 miliardi di dollari del 2016). Il Laos, peraltro, è anche un monito «su che cosa succede quando gli Usa arruolano un esercito per procura, sapendone poco e senza avere idea di che cosa farne se il conflitto è perduto»: dopo la vittoria comunista del 1975, solo parte dei hmong poterono infatti fuggire in Thailandia o negli Usa, alcuni allo stremo resistevano ancora una decina d’anni fa in aree isolate confidando invano in un messianico aiuto americano.
Incomprensibilmente privo di qualunque apparato cartografico e parco di coordinate sui luoghi, il volume scorre tuttavia fluido e dettagliato, a partire da come tratteggia i protagonisti: il Tony Poe di cui sopra, uomo d’armi asserragliato a Nam Yu, venerato dalle tribù di montagna che comandava, figura che risuona nella caratterizzazione del Kurtz fatta da Marlon Brando in Apocalypse Now di Coppola; Bill Lair, l’architetto dell’inquadramento dei hmong, dei quali sapeva lingua e dinamiche fra clan; Vang Pao, comandante dei hmong devoto alla causa anticomunista, destinato a coltivare, anche negli Usa, il sogno di rovesciare il regime comunista in Laos, ma incapace di vedere le difficoltà della sua gente in California o in Minneso- ta (di loro parla il film di Clint Eastwood Gran Torino, 2008); Bill Sullivan, onnipotente ambasciatore a Vientiane, poi a Teheran con lo stesso ruolo per assistere alla caduta dello scià e alla fine della presenza americana in Iran. C’è il Laos, poi, il «gran posto per farci una guerra» (parole del vicedirettore della Cia Robert Armory Jr., da cui il titolo del libro) dove la guerra segreta e le sue bombe hanno ucciso 200 mila persone, un decimo della popolazione.
Ma l’eredità del conflitto, anche la sua attualità, per Kurlantzick è che «in un certo senso, al netto del suo esercito privato, delle orecchie mozzate e delle teste impalate, Poe è diventato il modello del paramilitare in clandestinità che avrebbe riempito i ranghi dell’agenzia e dei suoi contractor ». Lui stesso, poi morto nel 2003 in California, già lo sapeva: la Cia «ora è piena di Tony Poe. Gente come me a loro serve».