Corriere della Sera - La Lettura
Palestina, la storia su una tela
In sei mesi di lavoro «matto e disperatissimo», Ismail Shammout, nato a Lydda (città araba oggi parte dello Stato di Israele con il nome di Lod), nel 1980 dipinse quest’opera di sei metri che andrà all’asta a marzo. Base: 800-900 mila dollari. Va letta, c
Non solo arte. L’asta di Christie’s in programma il 18 marzo al Jumeirah Emirates Towers Hotel di Dubai è destinata a toccare uno dei nervi scoperti della politica internazionale, quello della questione palestinese. Perché se in teoria si tratta di un appuntamento riservato al meglio dell’arte moderna e contemporanea di Iran, Iraq, Libano, Egitto e più in generale dell’intero Medio Oriente, di fatto il pezzo forte di quest’asta è rappresentato da un olio su tela di sei metri dall’esplicito titolo Odyssey of a People dipinto nel 1980 da Ismail Shammout (1930-2006) per raccontare «il dramma del popolo della Palestina». Un’opera che arriva per la prima volta sul mercato e per la quale la stima di partenza appare già cospicua: 800-900 mila dollari.
La tela, da leggere rigorosamente da destra a sinistra alla maniera della scrittura araba, è una ricostruzione per immagini delle vicende attraversate dal popolo palestinese e venne realizzata da Shammout in sei mesi di lavoro «matto e disperatissimo». Si parte dall’esodo del 1948 con la nascita di Israele (la nakba, letteralmente «disastro», «catastrofe», «cataclisma») che occupa buona parte della sezione destra; si passa poi ai vari conflitti arabo-israeliani degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, raffigurati dalla moltitudine «disperata e addolorata» della sezione centrale.
Shammout (artista e attivista, direttore nel 1965 delle Arti e della Cultura nazionale nell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) era fin dall’inizio consapevole che quella sarebbe stata la sua opera più importante e vi volle descrivere «il senso di non-appartenenza dei palestinesi in contrapposizione con i sentimenti, altrettanto forti, di speranza e di unità». Speranza e unità che si traducono nella tela nella bandiera palestinese che si intravede sullo sfondo e nella kefiah, il copricapo tradizionale della cultura araba e mediorientale, indossato da molti personaggi del quadro, a cominciare dal fedayn che imbraccia un kalashnikov e che campeggia al centro della tela. E se il sogno di una nazione «non si è ancora realizzato», come affermava Shammout poco prima della morte, «il forte desiderio di credere in questo sogno» — come lo definisce il curatore dell’asta di Christie’s, Masa Al-Katoubi — si ritrova raffigurato nella grande luce (di gusto impressionista) che occupa l’estrema sinistra dell’opera.
Dunque, l’Odissea di un popolo. Peraltro molto simile a quella vissuta dalla stessa tela una volta terminata: esposta per la prima volta a Beirut nel 1981, poi a Damasco, alJordanNa ti on al Museum di A mmane, infine, alPa lesti ne MuseumdiR amal lahd ove venne« sorpresa» da un bombardamento dell’aviazione israeliana. Proprio per proteggerla dalle bombe fu nascosta dal direttore del museo nella federa di un cuscino della sua abitazione. Odyssey of a People non sarebbe stato esposto in pubblico fino al 2008, dopo la morte di Shammout e del direttore, soltanto in virtù di un accordo raggiunto tra le due vedove. Da allora sarebbe rimasto nella casa dei familiari di Shammout: il 15 e il 17 di marzo, giorni dell’esposizione pre-asta, saranno di fatto la prima occasione per rivederlo dopo tanto tempo.
«Oltre al fedayn simbolo dell’Olp che in qualche modo fa da fulcro al racconto visivo di Shammout — spiega Masa Al-Katoubi a “la Lettura” — ci sono altre due figure fondamentali nella tela: una è Abdul alQadir al-Husayni (nel tondo a destra, ndr), leader palestinese caduto nel 1948, e nelle intenzioni dell’artista rappresenta la nascita della consapevolezza e della “lotta contro l’aggressore”; l’altra è Abdul al-Qadir Shammout (nel tondo a sinistra, ndr), padre dell’artista: nel suo sguardo rivolto verso lo spettatore e nella sua espressione di serenità c’è invece un profondo senso di speranza». Quali i possibili acquirenti? «Finora — risponde Al-Katoubi — le opere degli artisti palestinesi, e più in generale mediorientali, venivano comprate da collezionisti arabi appassionati alla storia e alla cultura dell’area, oltre che da musei e istituzioni come il Museo di Ramallah. Ma poi l’interesse si è andato progressivamente ampliando, potremmo dire con il persistere del conflitto, e si è in qualche modo internazionalizzato ».
Così, nell’asta del 18 al Jumeirah Emirates Towers Hotel si ritroveranno stili e temi differenti: l’iraniano Ali Banisadr (1976) che prendendo ispirazione dagli antichi manoscritti persiani propone «non-forme» coloratissime; l’egiziano Mahmoud Said (1897-1964) che celebra la luce e i colori del «suo» Nilo con uno stile figurativo semplice ed efficace; l’iracheno Faeq Hassan (1914-1992) che offre addirittura una rivisitazione (con tanto di crociati) della battaglia di Hattin (4 luglio 1187) tra il Regno di Gerusalemme e le forze musulmane comandate dal Saladino; Omar el-Nagdi’s (1959), anche lui egiziano, che contamina i geroglifici con affreschi italiani del Quattrocento; Nabil Nahas (1954), libanese da tempo trasferito negli Stati Uniti che, attraverso la costante presenza nelle sue tele delle stelle marine, riflette sulla natura e i suoi ricorsi.
Oggi nel mirino dei collezionisti, non più soltanto arabi, si ritrovano poi personaggi in qualche modo «scomodi» come Larissa Sansour (rimossa nel 2011 dalla lista dei candidati del Premio Lacoste perché «troppo palestinese») e autrice di cortometraggi come A Space Exodus o Nation Estate felicemente in bilico tra fantascienza e surrealismo, in cui le tematiche della diaspora vengono affrontate in modo decisamente non tradizionale. E la nuova generazione di un Emily Jacir, di fatto già certificata dall’esordio nel 2009 alla Biennale d’arte di Venezia ( Palestine c/o Venice il titolo della mostra curata da Salwa Mikdadi), e dal lavoro del Riwaq, il Centro per la conservazione del patrimonio artistico-architettonico della Palestina.
Tuttavia il nome più celebrato tra gli artisti della diaspora palestinese resta quello di Mona Hatoum, nata nel 1952 a Beirut da una famiglia palestinese, di recente protagonista di grandi monografiche al Centre Pompidou e alla Tate Modern. Le sue opere evocano isolamento, solitudine, fragilità personali affrontando però tematiche religiose e politiche che riportano continuamente alla sua origine e alla sua condizione di «senza terra». Doormat (1996) smaschera la falsa promessa del ritorno a casa dei rifugiati «ibridando un letto da fachiro e uno stuoino con sopra scritto Welcome» mentre in una performance del 1983 ( The Negotiating Table) la stessa artista, sdraiata su un tavolo in legno, è avvolta in un sacco per cadaveri con dentro bende, sangue, interiora, circondata da sedie vuote che proferiscono i discorsi di pace di leader occidentali. In Measures of Distance ( 1988), infine, video performance realizzata a ridosso dello scoppio della Prima Intifada nei campi profughi palestinesi (1987) c’è, in una forma espressiva sicuramente maniera «più moderna», tutta l’Odissea di un popolo. La stessa raccontata da Ismail Shammout.