Corriere della Sera - La Lettura
Ma la kefiah ora s’è scolorita
Yasser Hirbawi ha comprato le diciassette filatrici, marca giapponese, nel 1961 «perché volevo che i palestinesi smettessero di acquistare le kefiah all’estero, in Siria». A quei tempi un altro Yasser vagheggiava dall’esilio in Kuwait uno Stato per il suo popolo e Hirbawi sognava che i foulard trasmettessero lo stesso orgoglio, con il disegno in bianco e nero ispirato alle reti da pesca e alle spighe di grano, come alle origini in Mesopotamia.
La crisi per Yasser l’uomo d’affari è iniziata quando la speranza di quello Stato è sembrata più vicina a realizzarsi. Arafat firma gli accordi di Oslo nel 1993 e l’economia dei territori — dichiarati autonomi, sulla carta presto una nazione — si apre al mondo e alla concorrenza. I veli degli Hirbawi, cento per cento cotone, costano il doppio di quelli importati dalla Cina. Da trentamila all’anno, la produzione crolla al minimo: poco più di 1.800, cinque al giorno. Le macchine da filato restano a prendere polvere come il motore politico che dovrebbe costruire la Palestina.
L’ultima kefiah a produzione d’origine controllata è stata per ora salvata dall’estinzione grazie a un gruppo di palestinesi che vivono all’estero. Cinque anni fa hanno dato il via a una campagna digitale per sostenere la fabbrica, gli Hirbawi hanno dovuto adattarsi alle regole del marketing e alle richieste della moda: il bianco e nero è stato sostituito da altri colori più giovanili, gli stessi che hanno indossato anche le ragazze nei mesi di scontri con l’esercito israeliano, quando sembrava che la Terza Intifada — dopo le rivolte del 1987 e del 2000 — stesse esplodendo. La violenza dell’autunno 2015 è stata solo contenuta dalle operazioni militari, gli attentati di quelli che i servizi segreti chiamano «lupi solitari» vanno avanti, l’intelligence non ha soluzioni pronte per fermare i giovani che decidono chiusi nelle loro stanze di uscire armati con un coltello da cucina e colpire i passanti o i soldati israeliani.
Yasser Arafat non ha mai visitato la manifattura a Hebron, ogni tanto mandava i suoi emissari a comprare una kefiah, che il presidente esibiva appoggiata sulla testa calva in modo da riprodurre la forma della Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Adesso quel tessuto nazionalista sta esposto lungo le quattro rampe che fanno da sentiero celebrativo, le teche proteggono anche il revolver nella fondina di cuoio o i diari con le annotazioni fitte. Al costo di 7 milioni di dollari, il museo esalta il raìs guerrigliero e quasi dimentica il suo successore: Abu Mazen appare in qualche foto, quelle in cui cancellarlo si sarebbe notato troppo.
Il palazzo inaugurato nel novembre dell’anno scorso piange il capopopolo morto nel 2004 e l’unità palestinese che se n’è andata con lui. L’edificio è stato costruito dentro il recinto della Muqata, dove Arafat ha vissuto gli ultimi 34 mesi circondato dalle macerie e dai carri armati israeliani, «il campo della sua battaglia finale» come racconta la guida. Dietro queste stesse mura, Abu Mazen combatte la sua battaglia finale. Troppo debole per indicare un successore — il 26 marzo compie 82 anni — e ormai accusato di essersi trasformato in un despota che rinvia le elezioni: quelle amministrative dovrebbero svolgersi questa primavera, l’ultima volta che i palestinesi hanno votato per il Parlamento è stato nel 2006, quando hanno vinto i fondamentalisti di Hamas.
Nel discorso televisivo del 31 dicembre il presidente ha dichiarato il 2017 l’anno «del riconoscimento sempre più grande della Palestina». Abu Mazen — la sua firma da primo ministro sta sotto ai documenti di Oslo — è ancora convinto di poter proseguire nel percorso delineato dall’intesa, di poter realizzare quella che viene chiamata la soluzione dei due Stati. Anche se il premier israeliano Benjamin Netanyahu già parla di una «nazione ridotta» per i palestinesi e sembra poter ottenere da Donald Trump il via libera americano al funerale degli accordi di 24 anni fa, che sono costati la vita a Yitzhak Rabin, ammazzato da un estremista ebreo.
Così gli chiedono i ministri più oltranzisti nel suo governo. Il partito che rappresenta i coloni prepara la fossa con provvedimenti come la sanatoria votata poche settimane fa per gli avamposti costruiti in Cisgiordania su terra privata araba, abitazioni considerate fuori legge anche dalle norme israeliane. L’ultradestra nel governo spinge per l’annessione delle regioni catturate nel 1967 con la guerra dei Sei Giorni, una scelta che esporrebbe Israele al rischio delle sanzioni internazionali.
John Kerry ha voluto dedicare i settantadue minuti del suo ultimo discorso alla questione israelo-palestinese, un appello finale per la pace e allo stesso tempo l’ammissione di non essere riuscito — come gli altri capi della diplomazia americana prima di lui — a mediare una stretta di mano. Le sue parole — scrive il settimanale britannico «Economist» — «sollevano domande importanti»: «Può Israele continuare a considerasi una vera democrazia, se dopo cinquant’anni di controllo militare su un altro popolo non mostra alcun segno di voler garantire uno Stato o pieni diritti civili ai tre milioni di palestinesi che vivono tra la Cisgiordania e Gerusalemme Est?».
Netanyahu ripete di essere pronto a riprendere i negoziati fermi dall’aprile del 2014, accusa Abu Mazen di rifiutare «il dialogo senza precondizioni», in sostanza di pretendere troppo ancora prima di cominciare a discutere. Il raìs viaggia dall’Arabia Saudita all’Egitto in cerca di appoggio politico e finanziario, consapevole però che la causa del suo popolo non è più al centro delle preoccupazioni geopolitiche per il mondo arabo: ne è convinto anche il 78 per cento dei palestinesi — secondo un sondaggio dell’anno scorso — che accusano (il 59 per cento) i Paesi sunniti di essersi alleati con il «nemico» Israele per contrastare l’avanzata dell’Iran sciita. Tra i palestinesi che si sentono isolati dagli altri arabi, i più isolati di tutti sono gli abitanti di Gaza, dal 2007 sotto il dominio di Hamas. I fondamentalisti hanno tolto con le armi il controllo della Striscia ad Abu Mazen, da allora le guerre con Israele sono state tre, l’ultima durata cinquanta giorni nell’estate di due anni e mezzo fa. I palestinesi non riescono a ritrovare l’unità, ancora più lontana adesso che Hamas ha nominato un nuovo capo.
Yahya Sinwar è uscito dalle carceri israeliane nel 2011 dopo un ventennio, assieme ad altri 1.026 palestinesi rilasciati nello scambio per il caporale Gilad Shalit. Da allora è apparso in pubblico solo due volte, è in segreto che prepara le sue mosse, sospettoso anche dei suoi comandanti. È stato lui a fondare negli anni Ottanta la polizia interna di Hamas, squadracce integraliste che vigilano sulla «purezza» dei miliziani. Commenta lo scrittore israeliano Etgar Keret, pacifista disilluso e irriverente: «Resta la soluzione dei tre Stati. Uno per noi, uno per i palestinesi, un altro per gli estremisti di tutt’e due le parti».