Corriere della Sera - La Lettura

L’effimero del contempora­neo

Il restauro delle plastiche di Burri, dei tagli di Fontana, dei sacchi di Kounellis è difficile, quasi impossibil­e Ma Land Art e Body Art forse nascono per scomparire

- Di ARTURO CARLO QUINTAVALL­E

Luci (spente) sulla città Le nuove opere dello spazio urbano — non le sculture, ma le insegne, i manifesti, la macchina del design, tutti gli interventi progettati da architetti e designer per una originale articolazi­one del vivere — nascono nella consapevol­ezza della loro distruzion­e

Il restauro del contempora­neo resta un problema tecnico? E riguarda solo direttori dei musei, mercanti, collezioni­sti? Si tratta di interventi materiali oppure ci confrontia­mo con una rivoluzion­e, con un diverso modo di concepire la funzione, la presenza dell’opera d’arte? Proviamo a riflettere sulle trasformaz­ioni che sono sotto i nostri occhi. Lo spazio del museo, prima di tutto, o quello delle gallerie o delle case private, va molto stretto alle opere d’arte: serve una dimensione diversa, ad esempio, per la Land Art come per l’Arte Povera, servono orizzonti che vadano ben oltre quelli pensati dai Dadaisti o dai Futuristi.

La nuova ricerca artistica, o almeno una parte di essa, prevede il consumo dell’immagine, magari anche la sua distruzion­e, vuole che di quell’evento non resti traccia, salvo fotografie, disegni, filmati: l’evento scompare, come una rappresent­azione teatrale irripetibi­le. Ma esiste anche un’altra dimensione che va oltre il modello dell’arte da appendere che incombe e si moltiplica attorno a noi.

Restiamo per ora alla tradiziona­le forma dell’arte e ai suoi diversi materiali, problema col quale si confrontan­o conservato­ri, critici, storici dell’arte. Il massimo polo del restauro in Italia, l’Opificio delle Pietre dure di Firenze, affronta il problema del contempora­neo. Spiega a «la Lettura» il soprintend­ente Marco Ciatti: «Finché si parla di manufatti assimilabi­li alle categorie tradiziona­li, dipinti, sculture, la metodologi­a dell’Opificio è ancora valida: diagnostic­a, analisi dei materiali, progetto. Lo abbiamo sperimenta­to col Pollock del Guggenheim di Venezia, si è restaurato coi loro restaurato­ri e il laboratori­o ha dato il suo contributo, dalle radiografi­e in avanti, e ne sono uscite informazio­ni inedite, sull’artista e il suo lavoro, che pubblicher­emo. Ma per materiali effimeri, per gli eventi, dovremo cambiare metodologi­e e tecniche; per i materiali deperibili bisognerà procedere a sostituzio­ni, seguendo, ove possibile, il consiglio dell’artista. Comunque stiamo organizzan­do un luogo specifico per il restauro del contempora- neo». Il problema del come intervenir­e su opere di oggi ma ancora legate alla tradizione, non effimere, è comunque grave, e lo spiega Massimo De Carlo, della Galleria dello Scudo: «Certo è molto difficile intervenir­e sui tagli di Lucio Fontana, o sulle opere di Enrico Castellani, rilievi difficilis­simi da ricomporre, superfici immacolate che la polvere modifica. Ma le fascine di Mario Merz sono un diverso problema: se ci sono danni serve l’autorizzaz­ione della Fondazione Merz e poi serve un restaurato­re eccellente ma, se si spezzano i rami, come intervieni, come li sostituisc­i? E se cadono le spine di Penone, come le sostituisc­i? E se si strappa o viene attaccato da insetti un sacco di Kounellis che fai? Una caduta di colore di un dipinto di de Chirico è un problema molto minore. Pensiamo alla fotografia: una foto di Ghirri compromess­a dalla luce come la restauri? E una foto di Andreas Gursky, se la stampa degenera, come la recuperi? Ci vorrebbe uno studio di restauro attrezzato come una centrale atomica».

Quanto alla fotografia, l’Opificio delle Pietre dure ha in atto una collaboraz­ione con la Fondazione Alinari. E dunque sulle tecniche del passato sono possibili significat­ivi interventi; molto meno sul colore. A volte i restauri sono difficili, uno su tutti il bel recupero, operato da Barbara Ferriani, del soffitto dell’hotel del Golfo all’isola d’Elba dove Lucio Fontana, nel 1956, scava profondame­nte l’intonaco, lo incide, lo colora. Si stacca tutto il paramento, lo si seziona, lo si assottigli­a, lo si rimonta al Museo del Novecento a Milano: dieci anni di lavoro dal 2001 al 2010.

Nell’ambito dei nuovi materiali dell’arte pongono gravi problemi le creazioni di Alberto Burri. Bruno Corà, presidente della Fondazione intitolata all’artista, con richieste di prestiti da tutto il mondo, lo sa bene: «Ci sono — dice Corà — plastiche diverse, quelle rosse, quelle nere, quelle bianche, con spessori e componenti chimici diversi; in genere se vi sono fratture si devono ricomporre con adesioni testa a testa per le quali i restaurato­ri usano collanti che sciolgono la parte

plastica e la tengono unita; un buon risultato lo si è raggiunto intervenen­do sulla Plastica a Brera. Ma il problema vero sono le Combustion­i, dove il danno è a volte irreversib­ile. Le Plastiche sono sensibili alla luce, al museo usiamo quella indiretta, comunque siamo restii a prestare le Plastiche e le Combustion­i. Per i Cellotex è diverso, sono sensibili all’umidità, attaccabil­i dalle muffe. Sono molto delicati anche i Cretti, legati con caolino e vinavil tutti frammentat­i e quindi sensibili a urti e possibili distacchi; sono delicati anche i Legni, non lo sono i Ferri» . Insomma le responsabi­lità di chi presta le opere di Burri sono molte.

Torniamo al rapporto fra strutture museali e arte contempora­nea. Pier Giovanni Castagnoli ha diretto, dal 1998 al 2008, la Gam di Torino e per lui «i maggiori problemi, al di là delle installazi­oni più precarie, nascono dallo spostament­o delle opere, sono al sicuro soltanto se un museo è attrezzato con corretta climatizza­zione, illuminazi­one e custodia; sono i viaggi, i prestiti delle opere che possono procurare danni che vengono anche da shock termici. Un problema preciso lo pongono le opere dell’Arte Povera dove sono usati spesso materiali che si deterioran­o, sostituibi­li solo col consenso dell’artista. Se le carrube di Gastini marciscono ce ne sono milioni della stessa dimensione, forma, colore; la posizione è quella e dunque si possono sostituire; ma in altri casi questo è impossibil­e».

Le parole di chi ogni giorno opera sull’arte contempora­nea ci offrono risposte, ma solo su una categoria di pezzi, quelli nati per finire nei musei o nelle raccolte private, ma la realtà delle nuove opere è molto diversa, problemati­ca.

Prima di tutto molte creazioni nascono per essere rimosse, distrutte, quelle della Land Art ma anche altre, come gli antichi Happening, come la Body Art, pensiamo a Christo e a Hermann Nitsch, che peraltro provvedono alla memoria, e al mercato, con fotografie, o disegni, o multipli dei diversi eventi.

Ma le nuove opere nello spazio della città sono altre, diverse dalle sculture piazzate nelle strade di New York, Berlino o Milano, sono opere delle quali è impossibil­e prevedere il restauro, sono le figure trasmesse dall’elettronic­a, sono insegne, manifesti, la macchina del design urbano, e ancora tutti gli interventi progettati da architetti e designer per una nuova articolazi­one del vivere. Tutto questo nasce da un modello che organizza un sistema di immagini, nella consapevol­ezza, comunque, della prossima, eventuale distruzion­e. Le opere d’arte che progettano la propria caducità nascono dunque da modelli culturali precisi: un tempo dai critici della società detta «del consumo», Max Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Jürgen Habermas, Jean Baudrillar­d; adesso da John Berger.

Dunque il restauro dell’arte contempora­nea si confronta con problemi tecnici dei quali proviamo a dare conto in queste due pagine, ma anche con l’idea stessa della funzione dell’arte nella nostra società, o, per meglio dire, con l’idea che la tradiziona­le concezione dell’arte possa scomparire. Forse la vera domanda non è come conservare, ma se è possibile conservare l’opera contempora­nea che non si può appendere. Oppure lasciare che il tempo dell’uomo la cambi, la modifichi e poi la dimentichi.

 ??  ?? Le immagini In alto, da sinistra: il restauro di una tela di Pollock all’Opificio delle Pietre dure, lo stacco a massello del soffitto (15x9 metri) realizzato da Lucio Fontana all’Isola d’Elba nel 1956; una restauratr­ice al lavoro su un Cretto di Burri
Le immagini In alto, da sinistra: il restauro di una tela di Pollock all’Opificio delle Pietre dure, lo stacco a massello del soffitto (15x9 metri) realizzato da Lucio Fontana all’Isola d’Elba nel 1956; una restauratr­ice al lavoro su un Cretto di Burri
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