Corriere della Sera - La Lettura
L’effimero del contemporaneo
Il restauro delle plastiche di Burri, dei tagli di Fontana, dei sacchi di Kounellis è difficile, quasi impossibile Ma Land Art e Body Art forse nascono per scomparire
Luci (spente) sulla città Le nuove opere dello spazio urbano — non le sculture, ma le insegne, i manifesti, la macchina del design, tutti gli interventi progettati da architetti e designer per una originale articolazione del vivere — nascono nella consapevolezza della loro distruzione
Il restauro del contemporaneo resta un problema tecnico? E riguarda solo direttori dei musei, mercanti, collezionisti? Si tratta di interventi materiali oppure ci confrontiamo con una rivoluzione, con un diverso modo di concepire la funzione, la presenza dell’opera d’arte? Proviamo a riflettere sulle trasformazioni che sono sotto i nostri occhi. Lo spazio del museo, prima di tutto, o quello delle gallerie o delle case private, va molto stretto alle opere d’arte: serve una dimensione diversa, ad esempio, per la Land Art come per l’Arte Povera, servono orizzonti che vadano ben oltre quelli pensati dai Dadaisti o dai Futuristi.
La nuova ricerca artistica, o almeno una parte di essa, prevede il consumo dell’immagine, magari anche la sua distruzione, vuole che di quell’evento non resti traccia, salvo fotografie, disegni, filmati: l’evento scompare, come una rappresentazione teatrale irripetibile. Ma esiste anche un’altra dimensione che va oltre il modello dell’arte da appendere che incombe e si moltiplica attorno a noi.
Restiamo per ora alla tradizionale forma dell’arte e ai suoi diversi materiali, problema col quale si confrontano conservatori, critici, storici dell’arte. Il massimo polo del restauro in Italia, l’Opificio delle Pietre dure di Firenze, affronta il problema del contemporaneo. Spiega a «la Lettura» il soprintendente Marco Ciatti: «Finché si parla di manufatti assimilabili alle categorie tradizionali, dipinti, sculture, la metodologia dell’Opificio è ancora valida: diagnostica, analisi dei materiali, progetto. Lo abbiamo sperimentato col Pollock del Guggenheim di Venezia, si è restaurato coi loro restauratori e il laboratorio ha dato il suo contributo, dalle radiografie in avanti, e ne sono uscite informazioni inedite, sull’artista e il suo lavoro, che pubblicheremo. Ma per materiali effimeri, per gli eventi, dovremo cambiare metodologie e tecniche; per i materiali deperibili bisognerà procedere a sostituzioni, seguendo, ove possibile, il consiglio dell’artista. Comunque stiamo organizzando un luogo specifico per il restauro del contempora- neo». Il problema del come intervenire su opere di oggi ma ancora legate alla tradizione, non effimere, è comunque grave, e lo spiega Massimo De Carlo, della Galleria dello Scudo: «Certo è molto difficile intervenire sui tagli di Lucio Fontana, o sulle opere di Enrico Castellani, rilievi difficilissimi da ricomporre, superfici immacolate che la polvere modifica. Ma le fascine di Mario Merz sono un diverso problema: se ci sono danni serve l’autorizzazione della Fondazione Merz e poi serve un restauratore eccellente ma, se si spezzano i rami, come intervieni, come li sostituisci? E se cadono le spine di Penone, come le sostituisci? E se si strappa o viene attaccato da insetti un sacco di Kounellis che fai? Una caduta di colore di un dipinto di de Chirico è un problema molto minore. Pensiamo alla fotografia: una foto di Ghirri compromessa dalla luce come la restauri? E una foto di Andreas Gursky, se la stampa degenera, come la recuperi? Ci vorrebbe uno studio di restauro attrezzato come una centrale atomica».
Quanto alla fotografia, l’Opificio delle Pietre dure ha in atto una collaborazione con la Fondazione Alinari. E dunque sulle tecniche del passato sono possibili significativi interventi; molto meno sul colore. A volte i restauri sono difficili, uno su tutti il bel recupero, operato da Barbara Ferriani, del soffitto dell’hotel del Golfo all’isola d’Elba dove Lucio Fontana, nel 1956, scava profondamente l’intonaco, lo incide, lo colora. Si stacca tutto il paramento, lo si seziona, lo si assottiglia, lo si rimonta al Museo del Novecento a Milano: dieci anni di lavoro dal 2001 al 2010.
Nell’ambito dei nuovi materiali dell’arte pongono gravi problemi le creazioni di Alberto Burri. Bruno Corà, presidente della Fondazione intitolata all’artista, con richieste di prestiti da tutto il mondo, lo sa bene: «Ci sono — dice Corà — plastiche diverse, quelle rosse, quelle nere, quelle bianche, con spessori e componenti chimici diversi; in genere se vi sono fratture si devono ricomporre con adesioni testa a testa per le quali i restauratori usano collanti che sciolgono la parte
plastica e la tengono unita; un buon risultato lo si è raggiunto intervenendo sulla Plastica a Brera. Ma il problema vero sono le Combustioni, dove il danno è a volte irreversibile. Le Plastiche sono sensibili alla luce, al museo usiamo quella indiretta, comunque siamo restii a prestare le Plastiche e le Combustioni. Per i Cellotex è diverso, sono sensibili all’umidità, attaccabili dalle muffe. Sono molto delicati anche i Cretti, legati con caolino e vinavil tutti frammentati e quindi sensibili a urti e possibili distacchi; sono delicati anche i Legni, non lo sono i Ferri» . Insomma le responsabilità di chi presta le opere di Burri sono molte.
Torniamo al rapporto fra strutture museali e arte contemporanea. Pier Giovanni Castagnoli ha diretto, dal 1998 al 2008, la Gam di Torino e per lui «i maggiori problemi, al di là delle installazioni più precarie, nascono dallo spostamento delle opere, sono al sicuro soltanto se un museo è attrezzato con corretta climatizzazione, illuminazione e custodia; sono i viaggi, i prestiti delle opere che possono procurare danni che vengono anche da shock termici. Un problema preciso lo pongono le opere dell’Arte Povera dove sono usati spesso materiali che si deteriorano, sostituibili solo col consenso dell’artista. Se le carrube di Gastini marciscono ce ne sono milioni della stessa dimensione, forma, colore; la posizione è quella e dunque si possono sostituire; ma in altri casi questo è impossibile».
Le parole di chi ogni giorno opera sull’arte contemporanea ci offrono risposte, ma solo su una categoria di pezzi, quelli nati per finire nei musei o nelle raccolte private, ma la realtà delle nuove opere è molto diversa, problematica.
Prima di tutto molte creazioni nascono per essere rimosse, distrutte, quelle della Land Art ma anche altre, come gli antichi Happening, come la Body Art, pensiamo a Christo e a Hermann Nitsch, che peraltro provvedono alla memoria, e al mercato, con fotografie, o disegni, o multipli dei diversi eventi.
Ma le nuove opere nello spazio della città sono altre, diverse dalle sculture piazzate nelle strade di New York, Berlino o Milano, sono opere delle quali è impossibile prevedere il restauro, sono le figure trasmesse dall’elettronica, sono insegne, manifesti, la macchina del design urbano, e ancora tutti gli interventi progettati da architetti e designer per una nuova articolazione del vivere. Tutto questo nasce da un modello che organizza un sistema di immagini, nella consapevolezza, comunque, della prossima, eventuale distruzione. Le opere d’arte che progettano la propria caducità nascono dunque da modelli culturali precisi: un tempo dai critici della società detta «del consumo», Max Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Jürgen Habermas, Jean Baudrillard; adesso da John Berger.
Dunque il restauro dell’arte contemporanea si confronta con problemi tecnici dei quali proviamo a dare conto in queste due pagine, ma anche con l’idea stessa della funzione dell’arte nella nostra società, o, per meglio dire, con l’idea che la tradizionale concezione dell’arte possa scomparire. Forse la vera domanda non è come conservare, ma se è possibile conservare l’opera contemporanea che non si può appendere. Oppure lasciare che il tempo dell’uomo la cambi, la modifichi e poi la dimentichi.