Corriere della Sera - La Lettura
Ma niente catene alla ricerca
Ci sono aspetti ambigui nel mito del progresso: non è detto che prevalga la giustizia Sarebbe però un errore rinunciare all’utopia di una «tecnologia interpretativa e civilizzatrice»
Appare pressoché impossibile negare «le enormi attese, ma anche i più folli fantasmi che, all’inizio del XXI secolo, l’ingegneria genetica continua ad alimentare», scrive Claude Calame, della École des hautes études en science sociales di Parigi. Tali ambigue aspettative «hanno trovato una nuova espressione nei tentativi di fabbricare un uomo aumentato ». E perché non immaginare, con la clonazione, che un qualche individuo possa venir riprodotto in forma identica e conquistarsi così «una forma di immortalità»?
Calame viene invece da studi di lingua e letteratura greca, che spaziano dalla poesia lirica classica alle strutture dei miti, senza farsi mancare incursioni nell’antropologia. Alla curiosità «umanistica» ha saputo affiancare lo sguardo critico sul settore delle biotecnologie, in particolare per le loro applicazioni al nostro corpo. Il suo è uno sguardo che viene da molto lontano. Cita Sofocle: gli esseri umani «hanno saputo costruire case ove ripararsi dal gelo e dalla pioggia»; e, «se pur hanno inventato rimedi per malattie che si credevano incurabili», non sono in grado di «sfuggire alla morte». Per di più, «le loro macchinazioni superano le nostre speranze, ma essi non sanno dove andare: ora fanno il bene, ora fanno il male».
Si potrebbe commentare con una battuta dell’etnologo Clifford Geertz: noi esseri umani «siamo degli animali incompleti o imperfetti». Dunque, a ragione ci tocca la qualifica di mortali. Ci incalza il consumarsi incessante della nostra esi- stenza fisica né abbiamo alcuna garanzia di non commettere «ingiustizia» nella vita associata.
Nel suo Prometeo genetista, pubblicato in italiano da Sellerio, Calame ricorre a una delle più potenti figure del mito: già il poeta Esiodo narra che gli dei «hanno volutamente nascosto ciò che fa vivere gli uomini», irritati per gli «scaltri pensieri di Prometeo», che è stato capace di raggirarli. Ed Eschilo, ormai «all’apice dello sviluppo della civiltà greca classica», dedica a quel Titano leggendario una trilogia di cui ci è pervenuta la tragedia medi a na, Pr o meteo i ncat e nat o : t roppo «amico degli uomini», questo personaggio divino (forse un dio, più antico dello stesso Zeus), esiliato «in un deserto senza alcun mortale», è assicurato «con forza e violenza» a una parete di roccia, ed è abbandonato a un’aquila che gli divora il fegato che incessantemente ricresce. Nella messa in scena immaginata da Eschilo, Prometeo ha però tutto il tempo di disquisire a proposito di quelle tecniche di civilizzazione che ha elargito agli uomini: dall’arte dell’interpretazione dei segni della volta celeste ai modi del linguaggio. Per non dire del dono del fuoco, astutamente sottratto agli dei, fonte di energia per eccellenza! Per questo anche il Titano si è reso colpevole di ingiustizia, almeno agli occhi del sommo Zeus e degli altri dei dell’Olimpo che, più o meno riottosi, sono costretti a stare dalla parte di quest’ultimo.
Ma è solo una parte della storia: nella terza tragedia eschilea Prometeo veniva finalmente liberato da un altro personaggio, Eracle, capace di usare la forza in giu- sta misura (anche se non sempre). Ma più che a questa divina riconciliazione, Calame qui si mostra interessato alle conseguenze presso i mortali dei doni di Prometeo. Riprende Platone, anch’egli incline a servirsi del mito per chiarire le pieghe della propria filosofia: «L’uomo può far prova di padroneggiare l’arte della costruzione articolando e adattando elementi, e così inventa il linguaggio articolato con le parole, costruisce case, produce vestiti, calzature, rifugi, alimenti». E «in più, per difendersi dagli animali selvaggi, gli esseri umani cercano di raggrupparsi per fondare delle città». Qui il senso della giustizia dovrebbe modellare le loro azioni. Ma Platone era ben consapevole che troppo spesso così non è.
Questa è la duplice faccia del processo di civilizzazione: quel che appare «bene» in certe circostanze può rivelarsi male in altre. L’arte della politica, insegna ancora Platone, non è una tecnica come le altre. Ciò non toglie che «l’incorporea potenza del ragionare si è sviluppata in noi, perché si è sviluppata la corporea strumentazione di lingua e di mano», come osserva il filosofo Aldo Masullo in un suo elegante volumetto dedicato a Giordano Bruno: «La lingua ha permesso alla ragione di realizzarsi nella comunicazione culturale e la mano le ha consentito di misurarsi nel modificare le cose sensibili secondo i modelli culturalmente prodotti». Nel mito alla fine si riconciliavano, dice ancora Calame, «Zeus il tiranno» e «Prometeo il filantropo». Oggi come e più che al tempo dei Greci «fondate su un sistema nervoso centrale particolarmente sviluppato, le risorse culturali appaiono come gli ingredienti stessi dell’esercizio del pensiero umano». E ancor più adeguato del termine «incompletezza» pare adesso il concetto di «plasticità neuronale». Ma ora, osserva Calame, quegli antichi dèi sono scomparsi, e «divinità» più inquietanti si sono messe al loro posto: «Nel cuore del paradigma economico del capitalismo, la posta in gioco dello sviluppo dell’ingegneria genetica umana è diventata essenzialmente finanziaria, specialmente nel campo dell’industria farmaceutica e della terapia medica».
Allora, non si tratta di tornare a Esiodo, Eschilo o Platone, quanto di reinventare «una tecnologia interpretativa e civilizzatrice». Per esempio, «all’immagine analogica del codice genetico che rinvia a un funzionamento determinista univoco» dovremmo sostituire delle metafore diverse, come quelle «basate sul libro e sul discorso». Allora, «così come per gli enunciati di ogni forma di discorso, gli effetti di senso delle sequenze genetiche» potrebbero «offrire delle potenzialità interpretative multiple e costruttive, a partire da un nucleo semantico fluido, sottoposto a un costante cambiamento». Il nostro «nuovo Prometeo genetista» potrebbe così, collocato al confine tra filologia, antropologia e scienze della vita, gettare luce sulle visioni dei limiti che gli stessi uomini pongono a ciò che considerano «umano», senza alcuna necessità di essere incatenato a una roccia. Utopia? Forse, ma perché no?