Corriere della Sera - La Lettura
Sono già morto una volta. Adesso scrivo
L’intervista Il Bergamo Film Meeting dedica un omaggio a Jean-Claude Carrière, tra i massimi sceneggiatori. «La Lettura» lo ha incontrato nel suo studio: Tati, Buñuel, Trump, l’astrofisica, la vita. Una certezza: «Servono talento, lavoro e fortuna»
Per incontrare Jean-Claude Carrière si entra nel portone di una strada come tante vicino a rue des Martyrs, verso Montmartre, e attraverso un corridoio buio si arriva a uno spiazzo assolato, insospettabile dall’esterno. A sinistra, ecco una magnifica maison di tre piani, «era una casa chiusa», dice Carrière. Lui quella casa con i decori anni Trenta l’ha spalancata agli amici registi, attori, scrittori di tutto il mondo, alla moglie iraniana Nahal Tajadod, alla sua amica attrice Golshifteh Farahani, che quando è a Parigi vive spesso da loro, e soprattutto alle sue infinite curiosità. Carrière ci accompagna giù, nello studio, dove una donna disegnata per lui da Federico Fellini, ovviamente molto formosa, sovrasta la scrivania che ha visto la creazione di decine di capolavori.
A 86 anni Carrière è un immenso personaggio della cultura francese e mondiale, scrittore, paroliere e soprattutto sceneggiatore dei film di Luis Buñuel (da Bella di giorno a Il fascino discreto della borghesia) e di Miloš Forman, Pierre Étaix, Marco Ferreri, Louis Malle, JeanLuc Godard, Volker Schlöndorff, Andrzej Wajda, Philippe Garrel e molti altri. Il Bergamo Film Meeting (dall’11 al 19 marzo) gli dedicherà un grande omaggio.
Ha vinto due Oscar: agli inizi, nel 1963, per il cortometraggio Heureux Anniversaire di Pierre Étaix, e nel 2015, per la carriera. In mezzo c’è una vita intera che Carrière ha accettato di raccontare, almeno un po’, a «la Lettura».
Lei ha scritto di tutto: sceneggiature originali, adattamenti, saggi, canzoni, opere scientifiche, poesie. A che cosa deve il suo essere così produttivo?
«Mi lascio sempre dei pomeriggi liberi, voglio dominare il tempo. Eppure ho sempre lavorato tanto e sono sempre stato in anticipo nelle consegne. Comunque, se le distribuiamo su quasi 60 anni, le mie opere non sono così tante. Ho la fortuna rara di vivere sempre della mia penna. In tutta la Francia siamo solo in ventotto». Come lo sa, li ha contati?
«Non io, la società degli autori. La maggior parte dei miei colleghi è costretta a fare anche altri lavori, io ho potuto dedicarmi sempre e solo a scrivere. Merito del primo film che ho fatto con Pierre Étaix, Le soupirant ( Io e la donna, ndr)». Come andò?
«Non c’erano soldi quindi accettammo di lavorare senza anticipo, in cambio di
una percentuale degli incassi. Il film andò benissimo, il produttore fu onesto e così guadagnai subito quanto serviva a vivere e mantenere la famiglia per due anni. Mi sembrò una carriera interessante». Ha cominciato tardi per l’epoca, a trent’anni.
«Perché ho studiato storia alla Normale Sup, il più alto livello di istruzione universitaria francese, e poi ho fatto 29 mesi di guerra d’Algeria, come capitava ai ragazzi della mia generazione. Un buco enorme nella giovinezza». Come ha conosciuto Jacques Tati?
«Alla fine delle riprese di Mio zio il mio editore Robert Laffont aveva un contratto con Tati per la pubblicazione di due libri tratti dai suoi film, e mi chiese se avevo voglia di partecipare a un concorso con altri scrittori. Ho scritto un capitolo delle Vacanze del Signor Hulot e ho vinto. Ho conosciuto Tati il giorno stesso. È stato l’inizio di tutto». Merito di quel colpo di fortuna?
«Ci vuole una disposizione, un talento, che ho avuto molto presto. A nove anni già scrivevo. Poi ci vuole molto lavoro ma sì, anche un colpo di fortuna, che è stato
persi apre. me Ci l’incontro vogliono con tutt’e Tati. tre Unale cose: porta talen- che to, Brassens lavoro anchee fortuna. perché Amo viene molto dalle Georgemie parti, il Sud della Francia. C’è una canzone, Le mauvais sujet repenti, che parla di una prostituta, dove dice: “Senza tecnica un dono non è altro che una sporca mania”. Voglio inciderla su una lapide». Suona il telefono, la prima di molte volte durante l’intervista. È Julian Schnabel.
«Stiamo lavorando a due sceneggiature, una su un aspetto della vita di Van Gogh. Schnabel è un ottimo amico, quando è a Parigi lo ospito qui e a New York è lui a ospitare me a casa sua. Ha dipinto il ritratto di mia moglie e il mio». Ha una routine di lavoro?
«No, nessuna. Lavoro quando voglio e quando posso ma tutti i giorni. Posso lavorare ovunque. Uno sceneggiatore deve essere pronto a lavorare anche in uno studio con dei colpi di martello e gente che grida ovunque. Se hai bisogno di silenzio e di concentrarti non puoi essere sceneggiatore». Suona ancora il cellulare.
«Questo invece era Louis Garrel, ho lavorato con il padre e adesso collaboro con il figlio. Ha 33 anni e mi chiama anche se potrei essere suo nonno, e questo per me è un privilegio». Quanto ha contato l’incontro con Peter Brook?
«Ho lavorato 34 anni con lui. Ha 92 anni e ci vediamo ancora, gli ho parlato anche ieri. Per me è una collaborazione straordinaria. Mi ha portato in luoghi nei quali non avrei mai pensato di andare. Sono un piccolo contadino del Midi, io, mai avrei pensato che Peter Brook un giorno mi avrebbe portato in India per adattare il Mahabharata ». Qual è il filo conduttore della sua carriera?
«La gioia di essere capitato su questo Pianeta. Marte sarebbe stato più tetro. E poi la curiosità di tutto. A un certo punto, quando avevo 40 anni e tutto andava bene, di colpo ho realizzato che sarei morto stupido: non sapevo niente della teoria della relatività. Mi sono avvicinato agli astrofisici, mi sono messo a studiare, ho imparato e ho scritto dei libri». Il film più importante?
«Difficile da dire perché cambia spesso. Quando vedo un vecchio film, quale che sia, anche di Buñuel, ho sempre una doppia reazione: uno sguardo critico,
“questa scena avrei dovuto scriverla diversamente, qui non va”. E poi il contrario, cioè: “Oggi sarei ancora capace di fare questa cosa”? Ho rivisto Bella di giorno e c’è una scena che mi domando sempre se sarei ancora capace di scrivere così». Quale?
«Quella in cui Michel Piccoli incontra Catherine Deneuve nella casa di appuntamenti. Mi dico: “Beh, niente male. Ma oggi, siamo onesti, ne sarei capace?”». Quale ricordo ha di Umberto Eco, con il quale ha scritto due libri?
«Sono ancora molto addolorato, eravamo grandi amici. Con Umberto l’accordo fu immediato perché aveva un intelletto prodigioso ma anche un formidabile gusto della vita. Lavoravamo immersi nella piscina di casa sua, ho le sue foto con la testa fuori dall’acqua. Ci ha uniti anche la bibliofilia, una volta Marcello Mastroianni ci invitò a cena a casa qui a Parigi e io e Umberto ci mettemmo a parlare per ore di libri antichi, alla fine sua moglie Anna Maria Tatò ci cacciò via. Continuammo la conversazione sul marciapiede, a notte fonda». Pochi mesi fa lei ha scritto anche un libro sulla pace. Perché?
«Perché qui in Francia viviamo in pace ma siamo in guerra. E tutti parlano della guerra, più facile, mentre è la pace a essere affascinante».
Sua moglie è iraniana. Come seguite le prime settimane di Donald Trump alla Casa Bianca?
«La mia prima reazione è stata di felicità. Finalmente Ubu re era al potere. Nella mia vita ho visto anche questo, un clown pericoloso che non sa niente diventare presidente degli Stati Uniti. I decreti contro l’immigrazione, benché annullati dalla giustizia, hanno già fatto il loro male. Mia moglie è contraria agli ayatollah ma per reazione è quasi diventata favorevole al regime iraniano. Mi piacerebbe vivere ancora qualche altro anno per vedere come andrà a finire Trump, è come una serie e vuoi vedere la puntata successiva... Ma sono stato operato due anni fa e sono morto per due minuti. Il cuore si è fermato, poi sono riusciti a rianimarmi. Non ho alcun ricordo, nessuna luce bianca. Peccato. Torniamo sempre alla frase di Buñuel: “Quel che è triste non è morire, ma lasciare la vita nel bel mezzo della storia”». @Stef_Montefiori © RIPRODUZIONE RISERVATA