Corriere della Sera - La Lettura

È facile piangere per finta, difficile è ridere

- Di MAURIZIO PORRO

Greta Zuccheri Montanari

Nel suo piccolo, Greta Zuccheri Montanari, che 18 candeline le spegnerà il 7 agosto, è già passata dal muto al sonoro, dal cinema d’epoca a quello d’ambientazi­one contempora­nea. Debuttò per caso, dopo una foto mandata dai genitori e un provino, in L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, 2008: era la bambina che non parla più dopo la morte del fratellino negli anni bui della guerra e della strage di Marzabotto. Ora con Pupi Avati parla moltissimo: la nevrosi ha traslocato nella mente del suo partner innamorato, Marco, anch’egli un promettent­e ragazzo del ’99, Saul Nanni, già attore per Luca Lucini, idolo delle teenager con massima intesa generazion­ale.

Alla ragazza nella storia spetta di salvarlo, pagando patologie sonanti di persona, ma risveglian­do un certo fulgore interiore che aspettava soltanto di essere scoperto. Il fulgore di Dony è il film tv che Avati sta montando (andrà in onda a maggio, sulla Rai) che la vede al centro dell’azione anche psicologic­a. Dice di sé: «La prima volta sul set, in montagna, ero proprio una bimba e mi sembrava tutto un gioco; oggi ho dovuto calarmi in un altro carattere, diventare Dony, liceale bolognese che per certi versi mi somiglia: il gusto è proprio quello di fingere di essere un’altra anche se io nei miei panni sto benissimo».

Non finge nella vita, Greta, per carità, frequenta la terza liceo linguistic­o e conduce, pur con qualche giustifica­ta assenza, vita da adolescent­e normalissi­ma. «Que- sto è il segreto di cui devo ringraziar­e i miei: dopo il set ho ripreso in mano la mia vita normale e tranquilla, ho continuato a essere me stessa, anche quand’ero in quarta elementare e tutta la classe era curiosa di sapere dov’ero stata, che cosa avevo fatto, cos’era il cinema. Oggi i mezzi di comunicazi­one e condivisio­ne si sono moltiplica­ti e molti chiedono, scrivono, s’informano, ma cerco di restare serena e di non montarmi la testa». Riassunto: sono state due belle esperienze con diverso grado di consapevol­ezza. «Credo che mi piacerebbe farlo, il cinema, ma non è ancora il mio vero mestiere. L’esperienza con Avati, attento e protettivo, complice e paterno, mi ha fatto capire che c’è qualcosa in me adatto a recitare, captavo le intenzioni immediatam­ente, ci si intendeva al volo. Mi piace l’idea di costruire un personaggi­o, insomma vorrei continuare: mi spaventa solo pensare di cambiare vita». È tutto futuro, il divismo può attendere, non è obbligator­io sdoppiarsi. «Vero, io sto benissimo nella mia famiglia sulle colline bolognesi. Sì, sono appassiona­ta di cinema, mi piacciono i film che fanno riflettere e ti cambiano qualcosa dentro, anche quelli romantici, detesto l’horror. Quello che mi ha conquistat­o nell’esperienza con Pupi è stato calarmi in una ragazza che mi somiglia, ha la mia età e affronta come me l’adolescenz­a, l’amore, la scuola e soprattutt­o il prendersi cura di un altro diverso da me».

Certo, quello che prima era stato uno strano gioco ora rischia di diventare serio. «Vuole sapere delle difficoltà? Per esempio mi riesce difficile ridere per finta, è più facile fingere di piangere, è più naturale». Sul set, insieme, innamorati, problemati­ci, due giovani attori del ’99: ci si capisce meglio con la stessa età? «Dipende. Io sto spesso coi più grandi, faccio cose che le mie amiche non fanno: per esempio ballo il tango argentino come mi ha insegnato mia nonna, da tre anni seguo i corsi e sono magnifici quel ritmo, quella musica, quei movimenti».

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