Corriere della Sera - La Lettura

Cucio lampadine e scolpisco quaderni

- Di STEFANO BUCCI

Laura Trentin

Il mondo di Laura, Laura Trentin di Mariano Comense (un’altra ragazza del 1999), è tutto nei suoi quaderni. Veri e propri taccuini d’artista che guardano ai suoi maestri: Duchamp, Giacometti, Louise Bourgeois (in questo momento la preferita), Carol Rama. Capelli biondi corti, occhi grandi scuri e vivaci, tanti piercing e le dita abituate a lavorare, praticamen­te da sempre, ogni tipo di oggetto (a cominciare dalle lampadine, un’altra delle sue passioni), di materiale (la plastica, aghi e filo, il Vinavil), di colore («Il rosso è quello che mi piace di più»). Aspettando la vera prima mostra — a Milano in occasione della terza edizione di Studi festival #3, dal 14 al 18 marzo, dove Laura porterà i suoi taccuini, il suo «uomo-lampadina» — racconta di «essere sempre stata una bambina molto vivace e di avere sempre avuto un rapporto conflittua­le con la scuola».

Ama l’italiano, ma non la matematica, anche se i numeri — ancora una volta colorati, incisi, ricamati — ricorrono in continuazi­one nelle sue opere. La sua estetica (ma Laura preferisce piuttosto parlare di «quello che mi piace e quello che invece non mi piace») è fatta «di distrugger­e e ricostruir­e, di smontare e rimontare». Da questo nasce il rapporto strettissi­mo con i materiali, tanto che il suo zaino sembra a prima vista una sorta di negozio di ferramenta: dove convivono tutta una serie di quaderni (che sembrano vere e proprie sculture) e utensili vari, come una enorme bottigliet­ta di Vinavil. Cosa scrive, in modo così ossessivo su quelle pagine? «Numeri, formule, ricette di farmaci, definizion­i rubate dalle pagine ritagliate di un vocabolari­o: mi piace, ancora una volta, scomporre e ricomporre frasi assolutame­nte fuori contesto».

Perché niente sembra immobile nel mondo di Laura Trentin, che si veste tutta in nero, con tanto di zip e fibbie, alla maniera dark-punk-rock o forse sarebbe meglio dire «alla sua maniera»: con le dita sottilissi­me («Mi hanno detto che sembrano quelle di un pipistrell­o») lavora plastica, carta, nastro adesivo, filo, spago, persino forchette. Neo-duchampian­a? «Forse». Iperrealis­ta? «Forse». Niente, insomma, è mai preciso, sicuro, definito. Anche se non sembrano mancarle punti fermi, a cominciare dal solito Duchamp per arrivare a fotografi come Vivien Meier («Una delle prime artiste che ho conosciuto») e Robert Mapplethor­pe («Ho sempre in testa il suo incredibil­e ritratto della Bourgeois»).

Gli amici? «Fino a qualche tempo fa, ne avevo abbastanza, poi ho cambiato scuola e adesso mi è rimasta la mia amica del cuore, la stessa di sempre». L’ultimo libro letto? « Marcel Duchamp. Un genio perdigiorn­o delle Edizioni Clichy, l’ho finito mentre la stavo aspettando». Cosa dicono i suoi genitori, papà giardinier­e e mamma casalinga? Vorrebbero che prima di tutto finisse la scuola? «Sono contenti, mi lasciano fare. Certo che con mio padre di arte non parlo mai perché anche lui dipinge e, a differenza di me, dipinge specialmen­te paesaggi e vedute molto tradiziona­li, in stile surrealist­a-iperrealis­ta». Perché allora non vi confrontat­e mai tra di voi sull’arte? Laura abbassa un attimo gli occhi e poi dice a mezza voce: «Le sue cose non mi piacciono proprio».

Come premio per essere stata promossa, lo scorso anno Laura Trentin aveva chiesto di potersi iscrivere ai corsi di Roberto Casiraghi all’Accademia di Brera: «Un’esperienza bellissima, mi sono sentita libera». Mai stata alla Biennale di Venezia? «No. Finora non ho viaggiato molto». Questa potrebbe essere la volta buona.

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