Corriere della Sera - La Lettura
Amore e gelosia, Tolstoj sbaglia
Non sempre una frase, solo perché è bella, è anche vera. Per esempio: perché mai le famiglie felici dovrebbero assomigliarsi tutte? Se Lev Tolstoj, all’inizio del suo capolavoro Anna Karenina, avesse scritto: le famiglie che si spacciano per felici, e non lo sono, si assomigliano tutte, la letteratura avrebbe perso uno dei suoi incipit più belli, ma ne avrebbe guadagnato una profonda verità. La felicità può anche essere convenzionale — ma se capita qualche volta che lo sia, è solo per accidente. Tristemente meccanica è, invece, l’infelicità, che ci trasforma in burattini mossi dalla nostra stessa angoscia. Le passioni tristi, quelle sì, si assomigliano tutte: ostinate come piante infestanti, si nutrono di inezie, si avvitano in ragionamenti egocentrici, lasciano esistere gli altri solo come bersagli sfocati o come fonti di rassicurazioni a cui abbeverarsi finché si prosciugano. Costringono all’esilio in se stessi, in quei recessi dove ci assomigliamo tutti, perché siamo terribilmente noiosi nelle chiusure imposte dalla paura.
L’amore di Anna Karenina e Vronskij si spegne in una spirale di banalissime scenate di gelosia. E quanto è triste, e quanto sembra vero, che fra i due amanti dopo tutto il travaglio del desiderio si spalanchi la distanza; le piazzate di lei e lui che ne ha orrore, la freddezza che cresce, le domande, la ricerca famelica di prove. L’amore che scompare e lascia una traccia incongrua, come quando si stacca un quadro dalla parete e subito non si sa più com’era la stanza, prima. Fra i rituali dell’amore nessuno è più autolesionista di una scenata di gelosia: ci si tormenta con una curiosità morbosa per i dettagli, ci si improvvisa giudici istruttori; si cerca una confessione, e si è delusi in ogni caso, perché la meticolosità con cui si è frugata la vita dell’indagato tinge di sfumature sinistre qualunque sua parola o gesto. Come la piccola chiave che la moglie bambina di Barbablù infila nell’unica porta che non dovrebbe aprire: il sangue che la macchia è indelebile, per quanto la sposina la strofini; tornare indietro è impossibile.
Come molte passioni tristi, la gelosia obbedisce a una dinamica elementare: il suo unico fine è aggirare un pericolo. Ma ottiene l’effetto contrario: spinge il geloso a comportamenti ciechi e irriflessi, che finiscono per trascinare a compimento la sua paura più grande — la paura di perdere la propria unicità, di non essere riconosciuto, di allontanare chi ama. La gelosia è una profezia che si autoavvera, e probabilmente per questo è il movente di tante tragedie.
La lingua sa essere saggia nelle sue bizzarrie: gelosia è un sinonimo, ormai desueto, di persiana. Serramenti piuttosto ordinari si circondano così di un’aura fantasiosa: controre assolate, uomini possessivi che nascondono le donne alla vista degli estranei, anche quando i vetri restano aperti per il caldo. Ma proprio come il sentimento da cui prendono il nome, imprigionano un paradosso: le gelosie non poterono mai impedire alle recluse di guardare, attraverso le stecche di legno, chi passava sulle strade affettate fra strisce di sole e di ombra.
Si è sempre gelosi di qualcuno, ma questo di è ambiguo: può indicare sia la persona amata che si teme di perdere, sia il presunto rivale. Nell’equivoco linguistico si nasconde il dramma del geloso. Potrà, se è fortunato, tener lontani i suoi avversari; ma non potrà mai schermare gli sguardi e i desideri di chi ama; e se pretende di imprigionarli in un recinto, finirà solo per chiudersene fuori.
Rimaniamo sempre un po’ più soli, dopo le contorsioni per trattenere qualcuno che, se davvero stesse per sfuggirci e si fermasse solo per pietà, ci sembrerebbe improvvisamente disprezzabile — e ci scorderemmo che fino a un attimo prima temevamo sopra ogni cosa l’abbandono. Perché c’è una commiserazione di sé, alla radice della gelosia, così prepotente da svilire tutto ciò che tocca; un senso della propria miseria, che invano cerca consolazione. Potrebbe trovare sollievo, lo sguardo del geloso, solo se si spostasse davvero sull’altro, se finalmente iniziasse a ignorare i pretesi diritti dell’orgoglio offeso, se dimenticasse il luogo comune menzognero secondo cui essere gelosi è un segno d’amore.
È la scoperta che sconvolge il protagonista del romanzo La sonata a Kreutzer di Tolstoj. In un impeto di gelosia ha pugnalato la moglie e ora, di notte, su un treno che corre nella campagna russa, sente l’urgenza di confessarsi a viaggiatori sconosciuti. Il moralismo paranoide del suo racconto si squarcia all’im- provviso in una rivelazione tremenda. In piedi accanto al letto di morte della moglie, l’ha guardata, tutta livida e tumefatta, e per la prima volta l’ha vista come un essere umano. Non avrà nemmeno il sollievo di una condanna: è stato un delitto d’onore. Ma l’intuizione accecante dell’umanità di lei, dell’inconsistenza di quel diritto sulla sua vita che la società degli uomini implicitamente gli aveva concesso, è più tremenda di qualsiasi pentimento. E arriva quando è troppo tardi.
Ma qualche volta la triste meccanica della gelosia s’inceppa quando si è ancora in tempo. Come capitò a un brav’uomo di nome Gabriel Conroy in una stanza di locanda, una notte dell’Epifania di oltre cent’anni fa, nell’ultimo racconto dei Dubliners di James Joyce. La moglie, dopo i brindisi della festa da cui sono appena tornati, gli sembra più bella che mai, ma gli sfugge. Ha pianto lacrime silenziose ascoltando una romanza e adesso lo ignora. E quando lui, piccato, tenta di indagare, gli rivela poco a poco un dolore segreto, che ha custodito per anni. La canzone le ha ricordato un ragazzo conosciuto nella sua giovinezza a Galway; distratta e sognante, proprio quella sera gli ha detto di volerci tornare, e quella frase casuale ora gli sembra sospetta. Lui continua la sua indagine: è suo marito, perbacco! Non le dà tregua. Ma le domande beffarde inciampano in una risposta inaspettata: il ragazzo è morto da anni. Lui si vergogna di fronte a quel dolore, scricchiola la sua sicumera. Aveva davvero il diritto di infliggerle quell’interrogatorio? Non osa tenere la mano di sua moglie; poco prima sarebbe stato un gesto ovvio, quasi un riflesso, ma ora gli pare che lei sia un’estranea. Tutti i diritti decadono nella rivelazione della distanza. Lo coglie un pensiero irrimediabile: il viso che lui ama non è lo stesso per cui quel ragazzino è morto di freddo; non potrà vederla mai come l’ha vista Michael Furey. E mentre fuori scende la neve sui vivi e sui morti, sale in lui una strana pace; la pace di chi riesce, finalmente, a rassegnarsi alla natura inafferrabile dei segreti, dei silenzi, delle cose non dette.
Le relazioni felici non si assomigliano affatto: arrivano alla felicità ognuna per una sua via, a volte tortuosa. L’estenuante guerra di confine fra ciò che si può e non si può sapere dell’altro, la si vince solo con una sospensione volontaria della brutalità del possesso. Smetteremo di frugare fra i suoi pensieri come in una scatola di bottoni, e finalmente ci apparirà tutto intero.
Autolesionismo morboso L’amore di Anna Karenina e Vronskij si spegne in una spirale di banalissime scenate. Le piazzate di lei e lui che ne ha orrore: quanto è deprimente, e quanto sembra vero, che fra i due amanti dopo il travaglio del desiderio si spalanchi la distanza Sentimenti Non è vero che tutte le famiglie felici si somigliano mentre quelle infelici lo sono ciascuna a modo suo. Sono invece più omologate le passioni tristi