Corriere della Sera - La Lettura
Vendo un libro alla settimana
A Tokyo c’è questo negoziante che s’è inventato un nuovo modello di business: un solo titolo da proporre ai clienti-lettori, abbinato con esposizioni d’arte, fotografie, vini. È un successo. Nei giorni scorsi toccava a esili volumi di haiku accompagnati da «lacrime di vetro». Lo abbiamo incontrato
Perché molti abitanti di Tokyo si aggirino indossando una mascherina bianca sul viso non è chiaro. C’è chi dice per proteggersi dall’inquinamento; chi addirittura per non trasmettere malattie virali oppure per non prenderle; o ancora che sia diventata una moda e quindi un comportamento sociale per coazione a ripetere; chi invece giurerebbe che si tratta di un modo per nascondersi, una specie di timidezza. Le mascherine sul viso evocano epidemie, disastri nucleari, contagi planetari, ma forse hanno anche un valore estetico, mostrano la fragilità delle persone immerse in una metropoli vitale ma convulsa, dove sciami di individui corrono piuttosto che camminare e l’unico momento di pace sembra quello di un pasto comunque di corsa — un raamen, del sushi, la tempura o gli ottimi yakitori, spiedini di pollo alla griglia.
La gente appare composta di drappelli di soldati in parata, nelle due direzioni di marcia segnate ovunque, uomini d’affari con valigette rigide o zainetti, donne sempre eleganti, studenti in divisa, pallide Lolite, sopra e sotto il suolo della città, comunque tutti presi e avvolti con gli occhi e le mani negli smartphone e gli iPad che luccicano e fremono di vita.
Nel quartiere lussuoso di Ginza, proprio dietro al Kabukiza, il teatro dove da più di un secolo vanno in scena gli spettacoli dell’antica tradizione giapponese, prendendo una strada anonima e sparendo dall’agone di arterie trafficatissime e luccicanti, si arriva davanti a un edificio storico, il Suzuki Building, dove ha sede la libreria Morioka Shoten. Risale al 1929, sopravvissuta al bombardamento della città durante la Seconda guerra mondiale, sede in passato di Nippon Kobo, un editore che produceva riviste con l’obiettivo di condividere la cultura alta giapponese con il resto del mondo. Poco più di una piccola stanza dalle pareti imbiancate, illuminata da una luce calda, al centro un tavolino rettangolare in legno molto zen dove sono appoggiati alcuni volumi, sul fondo un mobile da tipografo di legno chiaro con piccoli cassetti, a destra uno specchio ovale con la cornice dorata, parquet grezzo sul pavimento. È un posto talmente dimesso che dalla strada quasi non si scorge. Secondo l’idea del fondatore, la missione sarebbe racchiusa in questa frase: «Issatsu, Isshitsu». Che significa: «Una stanza, un libro»; o meglio ancora: «Rigenerazione dell’atomo del libraio: una libreria con un solo libro».
Morioka progettò la sua idea nel settembre 2014, partecipando a un workshop sui nuovi modelli di business organizzato dallo studio di design Takram. La piacevole stranezza di questo piccolo negozio è che da due anni vende un solo titolo alla settimana, solo dal martedì alla domenica, solo il pomeriggio. Alla pubblicazione è sempre legato un contesto — una mostra fotografica, un’esposizione di pittura, una rassegna di artigianato, in una visione di intreccio e contaminazione di diversi linguaggi.
Alla Morioka Shoten ci sono arrivato già una prima volta appena sbarcato a Tokyo, con la mia amica Daniela De Palma, insegnante d’italiano all’università, docente di greco al nostro Istituto di cultura, appassionata conoscitrice di lingua e cultura giapponese, che è da poco tornata qui dopo un periodo trascorso al Cairo. Il proprietario però non c’era. La commessa ha detto che forse sarebbe ritornato, ma quel primo pomeriggio non s’è fatto vedere. Lì abbiamo conosciuto il fotografo Kenjiro Akama, rigidamente vestito di nero, una barba rada e incolta, i modi gentili, che pubblicizzava la sua piccola esposizione d’immagini di moltiplicazione della realtà (come il sovraffollamento dei salaryman, i lavoratori salariati, sulle strisce pedonali di Shibuya, il quartiere più trafficato del mondo), promuoveva il libro-catalogo Écriture ( dove ha pubblicato anche alcune poesie) e vendeva vino frizzante cinese di un’azienda per la quale aveva realizzato le etichette (qui devo dire che faceva una certa impressione vedere un artista metropolitano vendere bottiglie di vino a 2.500 yen, circa 21 euro, che qui sembra un discreto affare, ma a Tokyo funziona così e se uno non compra, non fa proprio quella che si dice una bella figura).
Prima di andarmene ho chiesto a Kenjiro di avvertire il proprietario che mi sarei fatto vivo il martedì successivo, quando avrebbe inaugurato la nuova vendita, e tutti cerimoniosamente e molto sorridenti mi hanno salutato con un ciao ciao ciao cantilenante e melodioso.
Durante il fine settimana ho cercato senza fortuna il numero di telefono di Yoshiyuki Morioka, un’impresa incredibilmente difficile, e il lunedì successivo mi sono deciso a scrivergli un messaggio su Facebook in inglese paventando con garbo l’idea di incontrarlo il giorno successivo per ricavarne una storia da scrivere. Mentre giravo come un matto per Tokyo con mia moglie, camminando e saltando da un metrò all’altro, da un quartiere all’altro, dall’antico di Ueno e i suoi templi al mondo manga dei giovanissimi di Harajuku, compresa un’incursione al complesso termale di Oedo Onsen Monogatari, in tasca il fedele pocket wifi a noleggio, controllavo di continuo, ma nessuna notifica arrivava dal geniale libraio, di cui avevo visto alcune foto su internet: magro e piccolo di statura, testa rasata e viso delicato, occhiali neri dal design accattivante, giacche piuttosto alla moda ma sportive, scarpe nere lucide — un tipo che sembrava piuttosto ironico e giocoso.
Il martedì successivo avevo appuntamento con Daniela davanti al Kabukiza per un ultimo tentativo: due giorni dopo avevo il volo di ritorno. Faceva molto freddo. Camminando a passo svelto prendemmo a percorrere le vie che portavano alla libreria. Quando sbucammo in Suzuky Building e arrivammo davanti al civico 1F, guardando attraverso la vetrina riconobbi subito la fisionomia del libraio dietro al bancone, gli occhiali neri rotondi e la giacca blu attillata di velluto, un Rolex al polso, indaffarato nel vendere ai molti clienti alcune «lacrime», gioielli artistici di Yuko Matsumoto — avrei appreso poco dopo — che pendevano da fili neri appesi sopra il tavolo zen. Mi sentii improvvisamente fortunato.
In realtà non so perché — sono cose che a volte succedono — ma ci riconoscemmo a colpo d’occhio anche senza esserci mai incontrati. Poi Daniela si avvicinò, e lui disse che sì, aveva ricevuto il mio messaggio ma non aveva avuto il tempo di rispondermi. Si scusava molto. Mi sembrò tutto meno che il libraio indipendente che m’ero immaginato, magari un po’ dimesso, il venditore disperato di libri che s’inventa la cosa geniale per sbarcare il lunario, l’intellettuale raffinato che aveva pronun-