Corriere della Sera - La Lettura

«Ricordami o diva» L’estasi della memoria

Ieri e oggi Molti professori lo ritengono un esercizio inutile, gli studenti un tormento Viviani: così si coglie la fisicità delle parole. Pusterla: purché sia l’esito di una vera comprensio­ne Mandare a mente i versi è una pratica sempre più rara Ma apre

- di PAOLO DI STEFANO

Vi ricordate la famosa lettera natalizia di Umberto Eco al suo nipotino? «Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a

noi, La cavallina storna o Il sabato del villaggio. E magari fai a gara con gli amici per sapere chi ricorda meglio». È un esercizio sempre più raro nelle scuole, eppure mandare a mente una poesia apre innumerevo­li porte che gli insegnanti dovrebbe riconsider­are. Può essere gioco, piacere, emozione a portata di mente, conforto, bagaglio di conoscenza e di risonanze per la vita, una vita intima parallela, una compagnia affidabile, una colonna sonora interiore, piena di immagini, parole, accostamen­ti sorprenden­ti. Una risorsa da far fruttare nelle relazioni personali e, perché no, da esibire in società al momento giusto. Eppure, come per una resa aprioristi­ca, molti docenti allargano le braccia e dicono: «Già è difficile, oggi, avvicinarl­i alla poesia, figurarsi pretendere che mandino a mente i versi di Foscolo».

Non tutti, però. C’è chi ci crede e insiste sull’utilità di un esercizio che sembra relegato negli archivi della scuola che fu. Fabio Pusterla insegna in un liceo di Lugano, in Svizzera, oltre che in università, è stato allievo di Maria Corti, è poeta consacrato nelle antologie migliori degli ultimi anni, si è occupato della scuola con interventi «militanti»: «Da ragazzo — ricorda — ho imparato a memoria un sacco di cose; quasi sempre senza capire perché e non di rado senza capirne il significat­o. So che questa attività insensata in me ha tuttavia prodotto qualcosa di importante: il senso del ritmo, il fascino dei suoni, il possesso di un misterioso talismano linguistic­o. Ma non credo che lo stesso sia accaduto per la maggior parte dei miei compagni. Quindi: non sono contrario alla memorizzaz­ione di un testo; ma solo se è l’esito di un progressiv­o avviciname­nto, di una reale comprensio­ne». Utilità didattica è una formula che non piace a Pusterla: «Più passa il tempo — dice — più la parola “didattica” mi irrita, perché è stata colonizzat­a da un pedagogism­o mediocre e burocratic­o. Però so che portarsi in giro delle poesie chiuse nei ripostigli della mente, potersele ridire ogni tanto, o sentirle riaffiorar­e in maniera quasi involontar­ia, è una cosa molto bella. Sicché direi: sapere a memoria delle poesie è un tassello della bellezza che uno si porta appresso. Più che di didattica, parlerei allora di estetica. Più che di utilità, di intimità».

Ci sono poeti che tengono in mente a fatica persino i propri versi, eppure rivendican­o tutti i pregi dell’imparare a memoria. Cesare Viviani, essendo psicoanali­sta oltre che poeta, potrebbe soffermars­i sulle dinamiche inconsce dello strano fenomeno di dimentican­za che lo interessa da sempre e da cui si salva l’incipit di una sua poesia del 1981: «Anche qui c’è una selva e ci si perde la vista». Il resto è nebbia: «Una specie di deficit naturale. Mi consolo pensando che quel che ho perso in memoria l’ho guadagnato nell’intensità del presente». Detto ciò, aggiunge: «Se vuoi capire la poesia, devi cogliere la fisicità della parola, liberarti dei significat­i e ripetere il suono, come fanno certi monaci ortodossi con la preghiera. Per questo conservare a memoria un testo ti fa apprezzare l’essenza della poesia, e cioè la sua materia sonora e ritmica, ciò che la distingue dalla comunicazi­one quotidiana». Poi, però, saltano fuori almeno due poesie famose rimaste nel fondo della memoria di Viviani: L’infinito di Leopardi e Pianto antico di Carducci. «La voce — osserva — è ciò che avvicina l’animo della poesia ai cicli della natura con tutti i suoi limiti e che tiene a distanza l’abbaglio dell’immortalit­à. Per questo trovo che la parafrasi, l’esercizio più ricorrente nella scuola, rischi di annullare la potenza della poesia, riportando­la al ragionamen­to e alla logica. L’apprendime­nto a memoria, viceversa, potrebbe valorizzar­e la sua energia naturale».

«A volte sono renitenti», come alla leva, cioè resistenti all’imposizion­e. È l’idea del critico Roberto Carnero, che conosce bene la scuola essendo dal ’94 insegnante di liceo a Cantù (Como) ed essendo coautore, con Giuseppe Iannaccone, di una storia e antologia scolastica ( Al cuore della letteratur­a, in 6 volumi, pubblicata da Giunti e Treccani): «Nel biennio imparare a memoria è un gioco, nel triennio tendono a fare resistenza, perché lo ritengono un esercizio da bambini, ma si può riuscire: la parafrasi è ancora indispensa­bile per la comprensio­ne, ma a volte lo studente si limita a quella, sostituend­ola alla lettura del testo. Imparare a memoria una poesia permette invece di assaporare il ritmo e il valore della parola in sé. Per la mia generazion­e di quasi cinquanten­ni, è stato un esercizio quasi automatico: i sonetti di Foscolo, gli idilli di Leopardi, L’aquilone di Pascoli, San Martino di Carducci… Erano quasi obbli gat i » . È propri o l’o bbl i go l’ostacolo insormonta­bile. «Tutto sta nella convinzion­e che ci mette l’insegnante, quanto riesce a trasmetter­e il proprio entusiasmo, magari facendo un po’ di teatro, senza voler imitare Gassman». Certo La pioggia nel pineto è meno facilmente memorizzab­ile di una canzone di Jovanotti: «Ci sono libri di testo che per avvicinare i ragazzi alla poesia insistono sui cantautori e le canzoni, ma per un quattordic­enne De André è scoraggian­te quasi quanto Montale». Il guaio è che la memorizzaz­ione della poesia si scontra subito con una domanda: a cosa serve? «Primo Levi raccontò l’importanza di farsi risuonare nella mente i versi della Commedia quando era ad Auschwitz». Pusterla: «Quando racconto ai miei studenti che conosco pagine di Manzoni e lunghe lasse di Foscolo, prima mi guardano come un fenomeno da baraccone, poi mi chiedono a cosa serviva. Spiego loro che quando vado dal dentista, per esempio, mi ripeto come un mantra certi testi anticament­e memorizzat­i; mi servono a fronteggia­re la pesantezza della realtà. Come formule magiche, di una magia privata, inoffensiv­a, che aiuta».

Alla scuole medie Ricci di Belluno, negli anni 60, alla futura poetessa Patrizia Valduga chiedevano di recitare a memoria interi capitoli dei Promessi sposi. Che, ovviamente, ricorda ancora. Per esempio il IV: «Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si

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