Corriere della Sera - La Lettura
«Ricordami o diva» L’estasi della memoria
Ieri e oggi Molti professori lo ritengono un esercizio inutile, gli studenti un tormento Viviani: così si coglie la fisicità delle parole. Pusterla: purché sia l’esito di una vera comprensione Mandare a mente i versi è una pratica sempre più rara Ma apre
Vi ricordate la famosa lettera natalizia di Umberto Eco al suo nipotino? «Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a
noi, La cavallina storna o Il sabato del villaggio. E magari fai a gara con gli amici per sapere chi ricorda meglio». È un esercizio sempre più raro nelle scuole, eppure mandare a mente una poesia apre innumerevoli porte che gli insegnanti dovrebbe riconsiderare. Può essere gioco, piacere, emozione a portata di mente, conforto, bagaglio di conoscenza e di risonanze per la vita, una vita intima parallela, una compagnia affidabile, una colonna sonora interiore, piena di immagini, parole, accostamenti sorprendenti. Una risorsa da far fruttare nelle relazioni personali e, perché no, da esibire in società al momento giusto. Eppure, come per una resa aprioristica, molti docenti allargano le braccia e dicono: «Già è difficile, oggi, avvicinarli alla poesia, figurarsi pretendere che mandino a mente i versi di Foscolo».
Non tutti, però. C’è chi ci crede e insiste sull’utilità di un esercizio che sembra relegato negli archivi della scuola che fu. Fabio Pusterla insegna in un liceo di Lugano, in Svizzera, oltre che in università, è stato allievo di Maria Corti, è poeta consacrato nelle antologie migliori degli ultimi anni, si è occupato della scuola con interventi «militanti»: «Da ragazzo — ricorda — ho imparato a memoria un sacco di cose; quasi sempre senza capire perché e non di rado senza capirne il significato. So che questa attività insensata in me ha tuttavia prodotto qualcosa di importante: il senso del ritmo, il fascino dei suoni, il possesso di un misterioso talismano linguistico. Ma non credo che lo stesso sia accaduto per la maggior parte dei miei compagni. Quindi: non sono contrario alla memorizzazione di un testo; ma solo se è l’esito di un progressivo avvicinamento, di una reale comprensione». Utilità didattica è una formula che non piace a Pusterla: «Più passa il tempo — dice — più la parola “didattica” mi irrita, perché è stata colonizzata da un pedagogismo mediocre e burocratico. Però so che portarsi in giro delle poesie chiuse nei ripostigli della mente, potersele ridire ogni tanto, o sentirle riaffiorare in maniera quasi involontaria, è una cosa molto bella. Sicché direi: sapere a memoria delle poesie è un tassello della bellezza che uno si porta appresso. Più che di didattica, parlerei allora di estetica. Più che di utilità, di intimità».
Ci sono poeti che tengono in mente a fatica persino i propri versi, eppure rivendicano tutti i pregi dell’imparare a memoria. Cesare Viviani, essendo psicoanalista oltre che poeta, potrebbe soffermarsi sulle dinamiche inconsce dello strano fenomeno di dimenticanza che lo interessa da sempre e da cui si salva l’incipit di una sua poesia del 1981: «Anche qui c’è una selva e ci si perde la vista». Il resto è nebbia: «Una specie di deficit naturale. Mi consolo pensando che quel che ho perso in memoria l’ho guadagnato nell’intensità del presente». Detto ciò, aggiunge: «Se vuoi capire la poesia, devi cogliere la fisicità della parola, liberarti dei significati e ripetere il suono, come fanno certi monaci ortodossi con la preghiera. Per questo conservare a memoria un testo ti fa apprezzare l’essenza della poesia, e cioè la sua materia sonora e ritmica, ciò che la distingue dalla comunicazione quotidiana». Poi, però, saltano fuori almeno due poesie famose rimaste nel fondo della memoria di Viviani: L’infinito di Leopardi e Pianto antico di Carducci. «La voce — osserva — è ciò che avvicina l’animo della poesia ai cicli della natura con tutti i suoi limiti e che tiene a distanza l’abbaglio dell’immortalità. Per questo trovo che la parafrasi, l’esercizio più ricorrente nella scuola, rischi di annullare la potenza della poesia, riportandola al ragionamento e alla logica. L’apprendimento a memoria, viceversa, potrebbe valorizzare la sua energia naturale».
«A volte sono renitenti», come alla leva, cioè resistenti all’imposizione. È l’idea del critico Roberto Carnero, che conosce bene la scuola essendo dal ’94 insegnante di liceo a Cantù (Como) ed essendo coautore, con Giuseppe Iannaccone, di una storia e antologia scolastica ( Al cuore della letteratura, in 6 volumi, pubblicata da Giunti e Treccani): «Nel biennio imparare a memoria è un gioco, nel triennio tendono a fare resistenza, perché lo ritengono un esercizio da bambini, ma si può riuscire: la parafrasi è ancora indispensabile per la comprensione, ma a volte lo studente si limita a quella, sostituendola alla lettura del testo. Imparare a memoria una poesia permette invece di assaporare il ritmo e il valore della parola in sé. Per la mia generazione di quasi cinquantenni, è stato un esercizio quasi automatico: i sonetti di Foscolo, gli idilli di Leopardi, L’aquilone di Pascoli, San Martino di Carducci… Erano quasi obbli gat i » . È propri o l’o bbl i go l’ostacolo insormontabile. «Tutto sta nella convinzione che ci mette l’insegnante, quanto riesce a trasmettere il proprio entusiasmo, magari facendo un po’ di teatro, senza voler imitare Gassman». Certo La pioggia nel pineto è meno facilmente memorizzabile di una canzone di Jovanotti: «Ci sono libri di testo che per avvicinare i ragazzi alla poesia insistono sui cantautori e le canzoni, ma per un quattordicenne De André è scoraggiante quasi quanto Montale». Il guaio è che la memorizzazione della poesia si scontra subito con una domanda: a cosa serve? «Primo Levi raccontò l’importanza di farsi risuonare nella mente i versi della Commedia quando era ad Auschwitz». Pusterla: «Quando racconto ai miei studenti che conosco pagine di Manzoni e lunghe lasse di Foscolo, prima mi guardano come un fenomeno da baraccone, poi mi chiedono a cosa serviva. Spiego loro che quando vado dal dentista, per esempio, mi ripeto come un mantra certi testi anticamente memorizzati; mi servono a fronteggiare la pesantezza della realtà. Come formule magiche, di una magia privata, inoffensiva, che aiuta».
Alla scuole medie Ricci di Belluno, negli anni 60, alla futura poetessa Patrizia Valduga chiedevano di recitare a memoria interi capitoli dei Promessi sposi. Che, ovviamente, ricorda ancora. Per esempio il IV: «Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si