Corriere della Sera - La Lettura
David Hockney: io sono l’immagine
Architetture a due dimensioni Esce in Italia il volume-conversazione tra l’artista britannico e il critico Martin Gayford: un viaggio alla ricerca delle «ragioni della pittura» tra la classicità di Johannes Vermeer e il soldato ucciso di Robert Capa
«Perché dipingere dopot u t to ? » . L a d o manda co n c ui Mark Rot hko inizia una delle sue riflessioni sull’arte può valere anche nel lavoro di David Hockney, decano dell’arte inglese. L’ultimo volume, scritto con Martin Gayford, critico inglese e biografo di artisti ( Una storia delle immagini, Einaudi) raccoglie spunti e riflessioni di una vita e di oltre sessant’anni di carriera, maturati dall’alta cultura e consapevolezza di sé e del proprio lavoro dell’artista inglese. Hockney (a cui la Tate Britain di Londra dedica fino al 29 maggio una grande mostra-omaggio in occasione dei suoi ottant’anni) non ha mai mancato l’occasione di raccontarsi e questo volume è l’ultimo di una serie di momenti di autocoscienza artistica, in cui la funzione di Gayford non è quella di «intervistatore», ma, anche più che nella collaborazione per A Bigger Message (Einaudi, 2012), quella di co-autore, sapiente e articolata leva del «pensiero visivo» e della curiosità di Hockney.
Come denuncia il titolo, Hockney e Gayford ripercorrono e discutono immagini di qualsiasi natura, epoca e provenienza geografica lungo la dorsale degli interessi dell’artista. In un costante confronto tra Occidente e Oriente, si susseguono così temi fondamentali di storia delle immagini: la prospettiva e l’ottica, da Brunelleschi e Alberti alla resa spaziale isometrica nella pittura cinese e giappon es e ( i r ot ol i de l l a se r i e D a Wux i a Suzhou, 1689, di Wang Hui); lo statuto del segno, come nei graffiti preistorici o nella cultura cinese ( Sei cachi di Mu-ch’i); il tempo e spazio dell’immagine e della sua percezione (le diverse grandezze delle figure nelle pitture egizie, la narrazione di più episodi in una scena nel Rinascimento, ma anche il tempo indefinito della percezione del quadro e quello determinato della visione di un film); i limiti e le risorse che la tecnica offre nel suo cammino storico (la camera lucida e la camera oscura tra XVII e XIX secolo); i rapporti di filiazione tra pittura, fotografia e cinema, evidenti nel confronto tra la prima fotografia di Nicéphore Niépce e gli schizzi di vedute di Thomas Jones nel tardo Settecento o nella costruzione di famose immagini fotografiche (dalla teatralità ottocentesca di David Octavius Hill e Robert Adamson a The Falling Soldier di Robert Capa).
La tesi di fondo, volta a smascherare l’ambigua natura di «realtà» e «verità» dell’immagine, è la profonda unitarietà e continuità storica dei fenomeni visivi nello sforzo di traduzione della realtà tridimensionale nelle due dimensioni. Il conoscitore di Hockney ritroverà nel libro casi e discussioni già messi a fuoco, soprattutto ne Il segreto svelato (Mondadori Electa, 2002). Vi è tuttavia in Una storia delle immagini un grado di ricchezza e complessità che sorprende.
Si può infatti approcciare il volume almeno in tre modi. Il primo si appunta all’indagine teorica; nonostante quanto dichiarato nella prefazione, la storia e il significato dell’immagine sono ormai da tempo trattati dalla critica più o meno sistematicamente; la citazione del «pensiero visivo» di Arnheim evoca uno dei tanti riferimenti che nei decenni hanno sfaccettato lo studio dell’immagine. Ma questo sarebbe l’approccio più sbagliato, perché Una storia delle immagini non vuole essere un contributo di pura critica visuale.
Una seconda e più stimolante possibilità di lettura viene dal ricco apparato di immagini che è l’ossatura del libro. Si possono trovare disegni di Rembrandt, Lorrain o Ingres o immagini di strumenti ottici non così noti. Attraverso l’abile guida degli autori, si scoprono suggestivi confronti tra fotografia o cinema e pittura (le foto- grafie di Durieu e i dipinti di Delacroix; la Maddalena penitente di Tiziano e un’inquadratura di Ingrid Bergman in Casablanca; l’Annunciazione di Lorenzo Lotto e la resa della profondità nelle scene di Quarto potere di Orson Welles) o penetranti affondi sulle modalità esecutive di capolavori come I coniugi Arnolfini di Jan van Eyck o La mezzana di Vermeer. Le immagini del libro dialogano tra di loro in un tessuto di riferimenti che restituisce l’importanza delle modalità con cui chi produce immagini di qualsiasi natura a sua volta guarda, in un gioco di riprese e di influenze tra un’immagine e l’altra.
La terza via è molto legata alla seconda, ed è la lettura del libro come testimonianza di Hockney su di sé artista. Non solo per i riferimenti al proprio lavoro, ma per la stessa asistematicità della sua struttura e per l’attenzione ai dati di mestiere nascosti nelle immagini, il libro è un avvincente racconto della spregiudicata libertà di pensiero e di lavoro di uno degli artisti più colti e consapevoli del nostro tempo. Mai come in Una storia delle immagini sembra emergere la natura di artista di mestiere di Hockney, inesausto indagatore delle pratiche di creazione ed espressione, la cui vocazione pittorica ha saputo toccare come in nessun altro artista qualsiasi tipo di tecnica, aggiornandosi costantemente, come noto, anche sui più recenti sviluppi della tecnologia e della comunicazione.
La domanda di Rothko è la domanda di senso che corre in tutto il testo, ma la risposta sfugge fino in fondo alla teoria. «Perché dipingere dopotutto?». Per Hockney, autore di dipinti come Il massacro e il problema della rappresentazione (2003), sembra che la risposta sia nel mestiere, nella pratica della pittura come forma di conoscenza e di vita in continua e incessante evoluzione: «Credo che la pittura possa cambiare il mondo. Il disegno e la pittura continueranno a esistere, come il canto e la danza, perché la gente ne ha bisogno».