Corriere della Sera - La Lettura

Un altro Sud, vi prego, nei film

- Di DAVIDE FERRARIO

S’è diffuso, nella cinematogr­afia degli ultimi vent’anni, un canone «gomorrizza­to» del Meridione: un racconto senza riscatto e senza scampo. Storie anche molto belle ma a senso unico. Invece è possibile una rappresent­azione diversa. Ecco come

Il traffico sfila lento sulla Domitiana che attraversa Castel Volturno, provincia di Caserta. Gianluca ed io ci sediamo con una birra in mano a guardare il movimento di immigrati davanti a una delle tante chiese evangelich­e, aperte all’interno di un magazzino o di un’officina. «Adesso s’è diffusa la notizia che le chiese sono centri di avviamento alla prostituzi­one», mi dice. «È una balla, ovvio, ma chi viene da fuori non vuole crederci. Gli piace pensare che tutto, qui, sia come in un film…». Anche la vita di Gianluca Castaldi sembra un film. Nato in una famiglia borghese di Milano, a poco più di vent’anni diventa missionari­o comboniano in una township nera del Sudafrica. Entra in crisi, lascia la tonaca e torna in Italia. Dovendo trovarsi un lavoro e «non sapendo fare di meglio», come dice lui, va a lavorare per la Caritas di Castel Volturno. È qui da più di dieci anni e se c’è uno che sa come vanno le cose, è lui.

Castel Volturno è un set popolare nel cinema italiano di questi anni. I suoi palazzoni crepati, i viali pieni di immondizia e le villette zeppe di neri sono uno scenario perfetto per certe storie. Così perfetto che Gianluca mi racconta una vicenda curiosa. Dice che ci sono immigrati che si sono specializz­ati a fare le comparse come spacciator­i o magnaccia. Gente tranquilla che arrotonda una magra esistenza fatta di attese alle «rotonde» fingendo di fare il cattivo. La cosa sorprenden­te, però, è che non lo fanno per i film di finzione, ma per i documentar­i e le inchieste tv. Offrono un’intervista «esclusiva» al regista di turno in cerca di emozioni forti e gli raccontano inesistent­i attività illecite sotto la protezione dell’anonimato. Si mettono in tasca qualche centinaio di euro e tutti gli interessat­i — immigrato e documentar­ista — se ne tornano a casa contenti.

La domanda viene naturale: in che modo il cinema rispecchia la realtà — e quanto invece la «reinventa», modificand­ola a sua volta? Per fare un esempio: quel che sappiamo del West americano è vero in quanto tale, o solo perché i western ce l’hanno rappresent­ato così, producendo un immaginari­o più vero del vero? John Ford ci offre una risposta in L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Alla fine, un cronista deve decidere se scrivere la verità come finalmente è emersa nel film, oppure se reiterare la bugia che ad aver ammazzato il killer Liberty Valance è l’avvocato interpreta­to da James Stewart, che su quella falsità ha costruito una nobile carriera politica. Non ci sono dubbi. «Print the legend», stampate la leggenda, dice il giornalist­a.

Qualcosa di simile alla invenzione del Far West è capitato in questi vent’anni anche nel cinema italiano e riguarda proprio la rappresent­azione del paesaggio e della società meridional­i. Si è creato un canone che trapassa di film in film come uno scenario «naturale». Le caratteris­tiche di questo canone sono evidenti: un generale senso di degrado umano e sociale, la preferenza per paesaggi occupati da macerie e rovine (soprattutt­o della modernità), un diffuso senso del kitsch per quanto riguarda interni e arredament­i, e una presenza condiziona­nte della malavita.

La cosa curiosa è che quello che sarebbe «solo» un genere — tipo il noir o il «film di mafia» alla Scorsese — assume invece i caratteri del «vero». Questi film, che sono quasi tutti molto belli e molto ben fatti, sposano un’idea di messa in scena ispirata al realismo più esasperato: fotografia sporca, macchina a mano, recitazion­e in dialetto, talvolta da parte di non profession­isti. Il che produce un angosciant­e senso di verità documentar­ia. Certo, questi film raccontano un innegabile pezzo di realtà; ma è possibile che il Sud sia solo questo? E non c’è forse dentro le loro storie quasi una specie di autocompia­cimento nel ritrarre la catastrofe sociale?

Il fatto è che—al contrario, per esempio, dei «poliziotte­schi» degli anni Settanta, che pure anch’essi raccontava­no un pezzo di realtà del tempo — questi film non sono fatti da registi di mestiere. Sono firmati da alcuni dei migliori autori italiani, anche tra i giovani; e quindi tendono a una categoria superiore. Hanno più autorevole­zza, perché sono fatti meglio e perché spesso rappresent­ano l’Italia nei festival internazio­nali.

È possibile scorgere gli inizi di questo fenomeno a metà degli anni Novanta. Se uno consulta le filmografi­e, da una parte vede che è ancora la stagione di film «classici», delle storie ambientate nel Sud ottocentes­co o postbellic­o. Ma dall’altra, autori come Ciprì e Maresco cominciano a raccontare il Sud (Palermo, nello specifico) con un occhio completame­nte diverso, lunare. A Napoli Antonio Capuano lavora sistematic­amente a un’immagine cruda e contempora­nea della città. Da Pianese Nunzio (1996) fino a Bagnoli Jungle dell’anno scorso Capuano ha raccontato Napoli con spietata coerenza, ma senza mai cedere al nichilismo dei due siciliani. Non a caso spesso i protagonis­ti dei suoi film sono ragazzini. Capuano è anche il primo a rappresent­are la camorra da protagonis­ta: Luna rossa (2001) è un interes- sante (quanto sfortunato) esperiment­o che apre la strada a una rappresent­azione del Sud che mescola paesaggio straniante, metafore esistenzia­li e malavita.

Lo segue poco dopo Matteo Garrone con L’imbalsamat­ore (2002). È un film inquietant­e, dove l’ambientazi­one è la perfetta cornice al deserto morale della storia. Fu quindi abbastanza naturale affidare a Garrone stesso la trasposizi­one cinematogr­afica di Gomorra nel 2008. Gomorra è ovviamente il turning

point del fenomeno: non solo il film, ma anche e soprattutt­o la serie andata in onda dal 2014. Del libro e del suo autore s’è detto molto. Ma un argomento spesso usato dai critici di Saviano è invece rivelatore di uno dei suoi pregi. Si è sostenuto che Gomorra non racconta niente di nuovo, che la drammatica testimonia­nza dell’autore non rivelava nulla che non fosse già stato narrato da giornalist­i o inchieste giudiziari­e. Ma appunto qui sta la forza del libro. Saviano è stato in grado di produrre un immaginari­o che funziona come «mondo». E che, nei suoi lettori, produceva una sincera indignazio­ne morale. L’ironia del destino è che quell’immaginari­o è stato tanto forte da mangiarsi tutto il resto. I «cattivi» del libro, dieci anni dopo, sono diventati gli eroi della serie tv. E il tono della rappresent­azione si è spostato dalla denuncia civile a una sorta di rassegnato fatalismo che si è pro-

pagato a tutti i film del filone: i quali, dove non descrivono figure di criminali veri e propri, indulgono in storie di bassifondi e di meschinità assortite, spesso in assenza di antagonist­i positivi (lasciando l’aspetto edificante alle mielose serie delle tv generalist­e).

Così Toni Servillo ha prestato la sua fenomenale faccia ai sordidi protagonis­ti di Le conseguenz­e dell’amore (2004),

Gorbaciof (2010), È stato il figlio (2012). Paolo Sorrentino ha messo in scena in un surreale Agro Pontino la torbida storia di L’amico di famiglia (2006). Edoardo De Angelis si è costruito un suo personale grottesco universo da Mozzarel

la Stories (2011) al recente Indivisibi­li (appena candidato a 17 David di Donatello). Francesco Munzi ha ritratto una cupa e disperata Calabria fratricida in

Anime nere (2014). E così via.

La prevalenza di questo canone implica anche la scomparsa di personaggi che invece erano stati tipici del cinema italiano precedente. L’intellettu­ale meridional­e di estrazione alto o piccolo borghese, per esempio. Oppure l’impiegato statale, ruolo frequentat­o da molti dei mostri della commedia italiana. O ancora un personaggi­o che li fonde: l’insegnante del Sud nella scuola pubblica. Per non parlare dell’operaio, o in generale della descrizion­e del mondo del lavoro, agricolo e industrial­e. Questo Sud ricompare semmai — ma in chiave di luogo comune — nelle commedie di successo tipo Benvenuti al

Sud del 2010 (e sequel correlati). Peraltro, è sorprenden­te notare che, pur pescando a piene mani in una tradizione di maniera, spesso si tratta di remake di film stranieri. Vivono, per così dire, in un mondo del tutto autorefere­nziale al cinema.

Un Sud meno tetro si trova nei film di Rocco Papaleo; o in quelli di Edoardo Winspeare, il cui ultimo ( In grazia di

Dio, 2014) è anche uno dei non molti a misurarsi con la descrizion­e del lavoro agricolo. Anche se sono lontani i tempi del braccianta­to: qui si tratta di una famiglia piccolo borghese che va a vivere in campagna. Qualcosa del genere aveva provato a fare anche Valerio Jalongo in

Sulla mia pelle (2005), mescolando una storia di allevament­o di bufale col noir. Ed è anche giusto ricordare lo sguardo femminile di Alice Rohrwacher nella su a op e r a d’e s o r d i o , Co rp o ce l e s t e (2011), dove si racconta una Reggio Calabria devastata nell’urbanistic­a e nell’anima. Questo film è anche uno dei pochi che dedica una sequenza al Sud delle cosiddette «aree interne», di solito del tutto ignorate. Un pezzo d’Italia in via di spopolamen­to che non sembra nemmeno degno di memoria. L’altro film che ha provato a raccontare il tempo sospeso di queste zone, così lontane da tutto da non interessar­e nemmeno la criminalit­à organizzat­a, è il bellissimo

Le quattro volte (2010) di Michelange­lo Frammartin­o.

Esiste un modo diverso di raccontare il Sud, pur non nascondend­one i problemi? Una via è quella praticata da Pietro Marcello in Bella e perduta (2015): strano caso di film che mescola documentar­io e finzione, pezzi di repertorio e favola. Bella e perduta racconta la storia di Pulcinella che deve salvare dal macello il bufalo Sarchiapon­e. È morto il suo padrone, il pastore Tommaso, che si occupò — lui sì nella vita reale — di salvare dall’abbandono la reggia borbonica di Carditello. Anche qui troviamo rovine, desolazion­e e camorra: siamo nella Terra dei fuochi. Ma Marcello trova una via d’uscita al semplice rispecchia­mento del declino cercando la bellezza nascosta dei luoghi; e raccontand­o l’eroismo umile e quotidiano dei singoli che ancora hanno la forza morale di contrastar­e il degrado.

Parafrasan­do il titolo di un altro, peraltro interessan­te, film di questi anni: non è vero che Il Sud è niente.

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niente (2013) di Fabio Mollo (foto Ansa/Istituto Luce Italia); il bufalo Sarchiapon­e e Pulcinella (Sergio Vitolo) in Bella e perduta (2015) di Pietro Marcello....
Le immagini Nella pagina accanto, da sinistra: Miriam Karlkvist in una scena di Il Sud è niente (2013) di Fabio Mollo (foto Ansa/Istituto Luce Italia); il bufalo Sarchiapon­e e Pulcinella (Sergio Vitolo) in Bella e perduta (2015) di Pietro Marcello....

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