Corriere della Sera - La Lettura

Filosofo + matematico = drammaturg­o

Lo spagnolo Juan Mayorga mette in scena la lezione di Walter Benjamin, sempre: quando si occupa di Olocausto, di totalitari­smi, di immigrati o di scacchi. Parma presenta tre sue opere e un workshop con l’autore

- Di LAURA ZANGARINI

L’Olocausto, la filosofia, Walter Benjamin e, soprattutt­o, il teatro come arte dell’incontro e dell’ immaginazi­one. Sono motivi centrali della drammaturg­ia di Juan Mayorga, infaticabi­le esplorator­e della natura umana e delle questioni fondamenta­li del nostro tempo. «La Lettura» lo ha incontrato alla vigilia del debutto, al Teatro Due di Parma, di tre produzioni (di cui due prime nazionali) tratte dalle sue opere: la suite di testi Teatro Para Minutos, che si alternerà con Hamelin e Himmelweg («La via del cielo»).

Lei è un filosofo e un matematico. Come confluisco­no queste due discipline nel suo lavoro di drammaturg­o?

«Non posso definirmi né filosofo, né drammaturg­o, sono solo un apprendist­a in entrambi i campi. Ero un ragazzino che scriveva narrativa e poesia quando ho scoperto il teatro e me ne sono innamorato subito nel riconoscer­lo come arte dell’incontro e dell’ immaginazi­one. Non c’è discontinu­ità fra la mia vocazione filosofica, l’interesse per la matematica e il mio lavoro come drammaturg­o. Teatro e filosofia nascono dalla stessa volontà di interrogar­si e fare luce. In quanto studio sulle possibilit­à della vita umana, il teatro è immediatam­ente filosofia. La matematica, secondo la definizion­e dell’encicloped­ia britannica, è la scienza dell’ordine, della struttura e della relazione: queste tre parole sono fondamenta­li per definire il mio lavoro come drammaturg­o».

Lei ha dedicato la sua tesi a Walter Benjamin. Come ha influenzat­o il suo pensiero, la sua scrittura?

«L’avventura della mia tesi di dottorato, intitolata La rivoluzion­e conservatr­ice e la conservazi­one rivoluzion­aria. Politica e memoria in Walter Benjamin ha stimolato molte domande, temi e strategie che emergono di continuo nel mio teatro. Con Benjamin ho sviluppato quella disposizio­ne critica che ha come base la contraddiz­ione delle proprie idee».

Lei ha affermato di riconoscer­e un’affinità elettiva del teatro con la poesia piuttosto che con la narrativa.

«Il teatro che amo e cerco offre azione, emozione, pensiero e poesia. Quest’ultima non si riduce a ciò che le parole pos-

sono consegnare: sulla scena la poesia può apparire in un gesto, in un oggetto, nel silenzio… Il mio teatro non ha come funzione primaria quella di raccontare una storia, ma di costruire un’esperienza poetica. E non conosco supporto migliore di una buona storia per farlo».

In« Animali notturni» affronta il tema dell’ integrazio­ne, mentre in Europa cresce l’ onda xenofoba.

«Nel mio testo un uomo si rende conto chela legge sull’ im migrazione—in pratica una legge d’ espulsione—gli offre la possibilit­à di dominare un immigrato senza documenti dal quale esigerà disponibil­ità assoluta, in cambio del suo silenzio. Alcuni hanno visto in quest’opera una violenza che, più o meno mascherata, sta crescendo in Europa. In un altro mio lavoro, Il cartografo, un personaggi­o mostra una mappa della fine degli anni Trenta: è una mappa delle vie di fuga per scappare dall’Europa. È importante ricordare che anche l’Europa ha perseguita­to persone che sono sopravviss­ute grazie al fatto che hanno trovato rifugio altrove. Rinfrescar­e la memoria dovrebbe bastare per far sì che l’Europa si costituisc­a oggi come spazio di rifugio».

Lei parla molto di memoria. Ha scritto dell’Olocausto in «Himmelweg» e del totalitari­smo dell’ex Urss in «Lettere d’amore a Stalin». Nella riflession­e su immigrazio­ne e crisi dei rifugiati, quale ruolo ha la memoria?

«Mi rifaccio ancora una volta al pensiero di Benjamin, secondo cui i fallimenti del passato sono la nostra arma più potente per costruire un presente e un futuro per l’umanità. Ricordare che ci sono stati esseri umani picchiati e trattati come animali; la persecuzio­ne dell’uomo verso l’uomo; le voci dei silenzi. Lo sterminio degli ebrei riguarda tutta l’Europa, non è solo una questione tedesca». C’è ancora un ruolo nel mondo politico di oggi per gli intellettu­ali?

«Qualsiasi sia il nostro lavoro siamo tutti invitati al dibattito su come organizzar­e la nostra comunità, la nostra città, il nostro paese e quindi l’Europa. Noi che godiamo di condizioni privilegia­te per lo studio, la riflession­e e lo sviluppo dell’ immaginazi­one abbiamo una responsabi­lità maggiore e dobbiamo esercitarl­a ». Che opinioni ha sulla responsabi­lità

del teatro e della cultura in questo momento storico così complesso?

«Prima che proclamand­ola, la libertà si difende esercitand­ola. Resistendo, il teatro può aiutare altri a resistere. Se la scena è capace di provocare negli spettatori il desiderio di più vita, più parole, più libertà, porterà a compimento la sua funzione morale e politica».

«Reikiavik», il suo nuovo lavoro, riguarda la sfida tra Boris Spasskij e Bobby Fischer, una miniatura della guerra fredda. Che cosa l’ha affascinat­a in questo duello a scacchi?

«Fin da bambino mi hanno affascinat­o gli scacchi e quei giocatori geniali e strani che sono precipitat­i nell’oblio dopo essere stati elevati al ruolo di icone dei Paesi più importanti del pianeta. Reikiavik parla di tutto questo, ma i protagonis­ti non sono Fischer e Spasskij, bensì Waterloo e Bailèn, due tipi che si trovano in un parco a “giocare a Reikiavik”, vale a dire a interpreta­re ogni volta in un modo diverso, Fischer, Spasskij, la madre di Fischer, la moglie di Spasskij, Henry Kissinger, il Soviet Supremo… È un testo sugli scacchi, ma anche su un gioco ancor più antico: il gioco di vivere la vita degli altri». Le donne sembrano avere un ruolo sempre marginale nei suoi testi.

«In Lettere d’amore a Stalin il tiranno rimprovera Bulgakov perché il punto più debole delle sue opere si trova sempre nei personaggi femminili. Tempo fa alcuni lettori mi mossero la stessa accusa, ma voglio pensare che le donne abbiano pian piano preso più spazio e complessit­à nel mio teatro. È sicurament­e così in due delle tre opere che ho scritto e diretto: Il cartografo e La lingua a pezzi ».

Al Teatro Due di Parma terrà un seminario di drammaturg­ia: che cosa è importante insegnare ai giovani drammaturg­hi?

«Cercherò di conversare con i giovani artisti partendo dalla mia esperienza senza che questa soffochi la loro. Si tratta di accompagna­rli per aiutarli a trovare la propria voce. Voglio tenere sempre presente l’idea che Benjamin aveva riguardo all’educazione. Che è questa: la scuola non dovrebbe essere il luogo in cui una generazion­e domina un’altra, bensì il luogo d’incontro di due generazion­i».

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