Corriere della Sera - La Lettura
Supermamme crudeli in riva al mare
Family drama Privilegi e rivalità di un gruppo di quarantenni che vivono in case da sogno sul Pacifico. Dal 15 marzo la serie «Big Little Lies» con Nicole Kidman, Reese Witherspoon e Shailene Woodley, tratta dal libro di Liane Moriarty appena uscito in It
In una scena del primo episodio di Big Little Lies, family drama ricco di suspense in onda su Sky Atlantic dal 15 marzo, Celeste (Nicole Kidman) spiega alla nuova arrivataJa ne (Shailene Woodly): «Questa è Monterey. Bombardiamo le persone di gentilezza. Fino a ucciderle». Tratta dal bestseller di Liane Moriarty, appena uscito in Italia per Mondadori con il titolo Piccole Grandi Bugie, la miniserie di Hbo creata da David E. Kelley (lo stesso di Ally McBeal) e diretta da Jean-Marc Vallée ( Wild, Dallas Buyers Club) racconta privilegi, rivalità e ansie di un gruppo di donne attorno ai quarant’anni. Che vivono in case da milioni di dollari con vista sul Pacifico, fanno le supermamme alfa a tempo pieno come Madeline (Reese Witherspoon al suo meglio) o le supermanager hi-tech come la gorgone Renata (Laura Dern). E da brave madri elicottero riversano sui figli, compagni di classe in prima elementare, le proprie idiosincrasie.
«Stai benissimo. Ti sei rifatta?», chiede una mamma a Madeline il primo giorno di scuola. E lei: «No, ma come sei dolce a farmelo notare». Madeline a Renata: «Come hai passato l’estate?». «Oh, sono entrata nel CdA di PayPal. Che mi è passato per la testa, vero? Con la mia agenda così fitta...». Una tensione crescente, tra adulti che si comportano da seienni e seienni che la sanno lunga («Mia madre è un’attiva conversatrice», chiosa Chloe), e che sfocia nell’occasionale «In questa città sei morta!». E poi mariti in crisi di mascolinità che lavorano da casa su scrivanie in piedi, mariti affetti da machismo, mogli istruttrici di yoga (Zoë Kravitz) che coltivano quinoa in giardini verticali organici. I cliché ci sono tutti. Big Little Lies, per certi versi, è Desperate Housewives al quadrato. Vivono in case di vetro e si tirano le pietre.
Attorno a loro un coro greco, un volgo di mamme e papà ancora più invidiosi e ficcanaso. Spettegolano su Celeste, sposata a un banchiere più giovane e bellissi- mo (Alexander Skarsgård) che sembra non poter fare a meno di lei («Dovrebbe esserci un limite di cinque anni alle effusioni pubbliche di coppia», si lagna una madre). E proprio sul coro, su quel guardare dallo spioncino delle piccole città, si apre il romanzo, e poi la serie. Qualcuno è stato ucciso, alla serata quiz Audrey e Elvis della scuola, ma questo non è un thriller e non ci sono indizi. Per 6 dei 7 episodi non sappiamo neanche chi sia morto. Il pathos, in Big Little Lies, deriva non dall’omicidio, ma dalla violenza dietro ai falsi sorrisi. Se nella prima stagione di The Affair il colloquio col detective serviva a riportare l’azione nel presente, peggiorando le sorti dei protagonisti, qui, col coro che non vede l’ora di sparlare, serve soprattutto a denunciare il volto crudele del villaggio.
Moriarty, scrittrice australiana da oltre sei milioni di copie, è brava a costruire l’escalation di tensione. Big Little Lies è una serie cinematica perché Vallée, tra flashback e flashforward, le va dietro. La vita di Celeste è troppo bella per essere vera. Ma Madeline Martha Mackenzie («nome di una bambina petulante», osserva Jane nel libro), che si picca di saper tutto degli altri, ignora cosa la sua migliore amica stia passando per mano del marito, brutale prevaricatore. Anche lei, come il coro greco, crede alla bugia della passione, perfino quando la passione ti porta dritto in ospedale. Troppo assorbita da se stessa e dalla noia, anche se poi è una persona buona.
«Il romanzo ha una grande architettura — osserva Kelley — sia a livello di personaggi che di trama. Una dark comedy dove coesistono ironia e malvagità. Nella serie (di cui Kidman e Witherspoon sono produttrici) abbiamo approfondito l’elemento drammatico». E se il coro nel libro è più presente, con digressioni proprie, la differenza più evidente è la location, trasferita dall’immaginaria Pirriwee, cittadina sulla spiaggia a nord di Sydney, alla reale Monterey, in California. L’am- bientazione balneare è preservata, ma i celebri scorci e la prossimità con la Silicon Valley conferiscono, oltre a un appeal globale, glam e sensualità. Luoghi da Instagram per una serie esteticamente perfetta, dove però più tempo passi, più scopri l’orrore sotto la superficie: stupro, violenza domestica, bullismo.
«Vulture», sezione di cultura pop del «New York Magazine», ha definito Big Little Lies serie definitiva del filone «Beautiful People Behaving Badly by the Sea» (Bella gente che si comporta male in riva al mare). Genere di recente fortuna e variamente declinato, da Bloodline, su una famiglia corrotta delle Florida Keys, a Revenge, soap con lo sfondo degli Hamptons, a The Affair, ambientata a Montauk. In tutte queste serie, il mare (l’oceano) fornisce un contrasto idilliaco ai sordidi sviluppi della trama.
Più ancora in Big Little Lies, dove non c’è fotogramma che non faccia sognare la California, tra spiagge private di sabbia bianca finissima e terrazze parquettate su cui sorseggiare Chardonnay. Ma al contrario di The Affair, a tratti insopportabile nel prendersi sul serio, Big Little Lies irride spesso Madeline e le altre, così egocentriche e impegnate a volere di più per accorgersi di quanto già hanno. In una scena del terzo episodio, quando la figlia 16enne Abigail decide di andare a vivere col padre, Madeline fa: «Non se ne andrebbe se sapesse che ho il cancro». E il marito: «Ma tu non hai il cancro». E lei: «Ma sarei disposta a prenderlo».
Brillantemente recitata da attrici che poco hanno avuto a che fare, finora, col piccolo schermo, Big Little Lies non si vergogna di quello che è (una serie sui problemi di gente facoltosa), non se la tira da esperimento antropologico. Ma non permette mai che il glam sia fine a se stesso. Ti sbatte in faccia la bellezza impossibile modello case al mare da sogno così che la violenza, quando arriva, sarà più devastante.