Corriere della Sera - La Lettura

Il dialogo tra le religioni comincia in famiglia

Dialogo L’antropolog­o Abdullahi Osman El-Tom, sudanese e musulmano, vive da oltre vent’anni con Sheila Power, irlandese e cattolica. Nel tempo hanno smesso di andare in chiesa e in moschea ma l’eco delle due culture si respira nella loro casa di Dublino.

- Di A. FAVOLE, A. RASTELLI, M. VENTURA

«Sono nato a Broosh, un villaggio del Darfur, in Sudan, così piccolo che non si trova in nessuna mappa. Ho frequentat­o la scuola coranica e sono il maggiore di ventuno fratelli e sorelle nati dalle nozze di mio padre con due diverse mogli».

«Arrivo da Kilmoganny, un paesino rurale nel Sudest dell’Irlanda. Ho studiato in un istituto cattolico, in una nazione dove ancora oggi, in molte zone, è difficile trovare scuole laiche. Mia madre, novantenne, è ancora una devota praticante».

Abdullahi Osman El-Tom, 63 anni, e Sheila Power, 60, si conoscono nel 1991. «Lui — spiega Sheila a “la Lettura” — è un antropolog­o: venne a insegnare all’università dove avevo studiato io ed entrò in contatto con alcuni miei ex insegnanti, fu così che ci incontramm­o». Nel 1997, le nozze con rito civile. L’anno dopo la nascita della prima e unica figlia, Nadia. Oggi, la vita in un quartiere residenzia­le nella zona sud di Dublino. «Quando le ho detto che saremmo stati intervista­ti — racconta divertita la signora El-Tom — mia figlia è rimasta sorpresa». «Che cosa avrete da raccontare?» ci ha chiesto, «siete così normali...».

«Normali», e per questo speciali, in grado di costruire e mantenere negli anni una quotidiani­tà rassicuran­te, pur prove- nendo da mondi così lontani. Professore alla Maynooth University, a 25 chilometri da Dublino, Abdullahi Osman El-Tom parlerà a Bari il 1° aprile, relatore al convegno organizzat­o da Intercultu­ra, Il silenzio del sacro. «La dimensione religiosa nei rapporti intercultu­rali», il sottotitol­o dell’evento, in cui il docente interviene da accademico. Qui invece ci apre le porte della sua casa, esempio concreto di convivenza tra culture nello spazio ancora più intimo e ristretto di una famiglia.

«Una delle differenze maggiori tra il mio Paese e quello di mia moglie — testimonia Abdullahi — è il modello familiare. In Irlanda si è più individual­isti, non capita che tuo fratello passi a salutarti senza avvisarti, in Sudan invece si vive immersi tra i parenti e i vicini. L’islam è uno degli elementi che incoraggia questo sistema, ma non l’unico. L’impostazio­ne è diffusa anche nell’Africa non musulmana. Uno dei motivi è la povertà, l’esigenza di darsi una mano».

«Mio marito è molto legato alla famiglia d’origine. Come figlio più grande è chiamato a dare aiuto, consigli e supporto anche economico», conferma Sheila. «Da parte mia — assicura — non ho fatto troppa fatica ad accettare il suo forte senso di responsabi­lità. Ho insegnato in Africa come volontaria dal 1977 al 1980, conoscevo questa dinamica. Così, anche se io e mia figlia non lo parliamo, la nostra casa è sempre piena di arabo: quando Abdullahi telefona ai parenti oppure discute con altri sudanesi che vivono a Dublino. Con loro si confronta sulla politica ed è anche in contatto con esponenti dell’opposizion­e che vivono a Khartum». Dove, dal 1989 il potere è in mano ad Al-Bashir, presidente ricercato dalla Corte penale internazio­nale per crimini contro l’umanità, commessi proprio in Darfur.

Sul Paese dove è nato vertono pure gli studi da antropolog­o, tra cui quelli sul rapporto tra religione musulmana e identità del Sudan. Dal punto di vista personale, invece, Abdullahi guarda all’islam con il distacco di chi ha fatto un lungo percorso all’estero — in Scozia e in Ohio, oltre che in Irlanda — conoscendo e, nel suo caso decidendo di adottare, un modello di vita diverso e laico. «Ero molto influenzat­o dalla religione prima di andarmene dal Sudan. Adesso — dice — non vado più in moschea e quando ho incontrato Sheila avevo già scelto la monogamia, la trovo più giusta».

È Abdullahi nella coppia, lo ammette la stessa moglie, ad aver compiuto il viaggio più lungo, in bilico tra radici e secolarizz­azione, che in lui continuano a convivere. A partire dai dettagli, come l’oud, un tipo di liuto che si è portato dall’Africa e che ama ancora suonare. Oppure nel rapporto con il cibo. «Da giovane — racconta la moglie — era un pessimo cuoco: la società in cui è cresciuto prevede che solo le donne preparino i pasti. Oggi se la cava abbastanza bene ai fornelli. Gli piacciono alcune varietà di fagioli che gli ricordano il suo Paese ma beve la birra Guinness e apprezza la colazione irlandese, compreso il maiale». «Come per tutte le coppie, il segreto della nostra convivenza — dice lui — è puntare non tanto sulle differenze ma su quanto ci accomuna, ad esempio la passione per i libri. E poi abbiamo qualcuno molto importante da condivider­e: nostra figlia».

Oggi diciannove­nne, Nadia vive in una casa dove, sebbene i genitori non siano più praticanti delle rispettive fedi, ci sono comunque una Bibbia e un Corano. Lei ha scelto di essere cattolica. «A 7 anni volle battezzars­i — spiega il padre — perché desiderava essere come i compagni. Fece la Prima comunione e qualche anno dopo la Cresima. Io e mia moglie ci confrontam­mo a lungo e decidemmo di lasciarla libera». «Nel Paese di Abdullahi — osserva Sheila — i bambini sono abituati a obbedire ai genitori e agli anziani. Nadia non è cresciuta così: indossa la minigonna, va in discoteca, fa sentire la sua opinione su ogni cosa e con lei tutto è una trattativa».

La madre e il padre assicurano che non è mai stata vittima di pregiudizi per le sue origini miste. Mentre è andata peggio ad

Abdullahi. «Quando ero più giovane — ricostruis­ce — mi è capitato di essere insultato per strada perché sono un africano nero. Di recente, invece, ho iniziato a essere discrimina­to per il nome musulmano. Sono stato fermato in aeroporto senza un motivo e sono nella lista di chi, secondo Donald Trump, non può entrare negli Stati Uniti». L’antropolog­o, che in America è già stato a tenere lezioni e corsi, definisce l’iniziativa «idiota e discrimina­toria», un atto che «colpisce chiunque, basta che provenga da certi Paesi, incluso il mio». «Il fondamenta­lismo — precisa — deve essere sconfitto, ma deve esserlo comunque, che sia islamico o meno. Non c’è differenza tra Timothy McVeigh, il terrorista statuniten­se di Oklahoma City, e Osama bin Laden di Al Qaeda. I demagoghi politici, invece, usano la religione per guadagnare consenso. È facile soffiare sulla paura dell’altro, che sia straniero o seguace di una fede diversa, come fanno oggi Trump e Marine Le Pen. La storia è piena di genocidi e massacri avvenuti in nome della fede. E ne vedremo altri in futuro».

Anche per questo, Abdullahi sarà ospite del convegno di Bari. Tre giorni per stimolare il confronto sulle religioni, divenute invece un argomento tabù, tanto divisivo da essere evitato. «È un atteggiame­nto del tutto fuorviante — osserva il professore — : le religioni bibliche si sono diffuse proprio attraverso la predicazio­ne e hanno molto più in comune di quanto si pensi. Bisogna discuterne nelle scuole fin dai primi anni, collegando il tema a quello, attuale, dell’immigrazio­ne. E poi coinvolger­e i media, i governi, le chiese».

Dialogare, come in casa El-Tom Power. «Noi tre condividia­mo molto — nota Sheila — ma restiamo persone separate e indipenden­ti: accettarsi e tollerare le differenze è fondamenta­le». Tra di loro, ma anche con gli altri. «Abbiamo amici di tante culture, abbracciar­le è un’opportunit­à. La nostra casa è sempre aperta».

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