Corriere della Sera - La Lettura
Gabriele Salvatores fa volare la Gazza ladra
Ritorni L’opera di Rossini mancava dalla Scala dal suo debutto nel 1817. In aprile la dirigerà Riccardo Chailly nell’allestimento di Gabriele Salvatores. Che anticipa: «La vita è caos, non un copione. E un acrobata riempirà la scena in lungo e in largo»
Quando debuttò alla Scala, il 31 maggio 1817, «il successo fu così travolgente, l’opera suscitò un tale furore che a ogni istante il pubblico, tutto quanto, si alzava in piedi per subissare Rossini di acclamazioni. L’amabile autore raccontò poi, la sera, al caffè Accademia che, indipendentemente dalla gioia del successo, si sentiva distrutto dalla fatica per le centinaia di inchini che era stato costretto a fare al pubblico, il quale, incessantemente, interrompeva lo spettacolo gridando: “Bravo maestro!” e “Viva Rossini!”». Le parole sono di Stendhal, presente a quella trionfale première. A ricordarle a «la Lettura» è Gabriele Salvatores, regista premio Oscar chiamato dal tempio della lirica milanese a dirigere, duecento anni dopo, La gazza ladra. L’opera in due atti di Gioacchino Rossini, scritta nel 1817 su libretto di Giovanni Gherardini (un poeta «di fresca data», come scrive Rossini in una lettera alla madre), debutterà il 12 aprile al Piermarini, dove rimarrà in scena fino al 12 maggio, con la direzione musicale di Riccardo Chailly. «Abbiamo cominciato le prove — racconta Salvatores — a marzo dell’anno scorso, i teatri lirici hanno bisogno con grande anticipo di un piano di scenografia e costumi, qui affidato a Gian Maurizio Fercioni».
Dall’esordio alla regia cinematografica nel 1983 ( Sogno di una notte d’estate), passando per la «trilogia della fuga» ( Marrakech Express, Turné e Mediterraneo, quest’ultimo Oscar come miglior film straniero nel ’91) fino ai più recenti Educazione siberiana e Il ragazzo invisibile, il percorso artistico di Salvatores si è spesso intrecciato con il palcoscenico. «Prima ancora che cinematografica — sottolinea il regista — la mia formazione è teatrale. Il mio primo spettacolo era un musical-rock sorretto dalle musiche di Mario Pagani, ex Pfm. Non è quindi la prima volta che mi cimento con queste due arti insieme, teatro e musica, senza contare che suonavo prima ancora di fare regia». La musica, precisa il regista, «ha un ruolo fondamentale nel mio lavoro: quando preparo un film ho già in mente una colonna sonora ideale».
Come sarà la sua Gazza? «Non amo le attualizzazioni troppo spinte, forzate. Ma penso che se Rossini fosse vissuto a metà del Novecento, o fosse nostro contemporaneo, avrebbe usato un altro tipo di musica e di strumenti, i recitativi sarebbero forse stati “rappati”. Era un innovatore, l’Ouverture lo dimostra: quei tre rulli di tamburo che aprono l’opera non erano mai stati usati fino ad allora in quel modo. Si racconta che il primo violino del tempo lo avrebbe voluto uccidere per aver messo i tamburi nella fossa dell’orchestra». A due anni di distanza dall’esito incerto di Il turco in Italia, «Rossini teneva molto al ritorno scaligero. Fu questo — spiega il regista — a spingerlo a scegliere come soggetto il dramma francese La pie voleuse, ispirato a sua volta a un fatto realmente accaduto».
Fece centro: la storia di Ninetta, la servetta ingiustamente condannata a morte per il furto di una posata (un cucchiaio d’argento) sottratta invece da una gazza, si mantenne in repertorio almeno per tutto l’Ottocento. «Ma alla Scala, dopo il debutto di allora, non è mai più stata messa in scena. E non se ne capisce la ragione — precisa Salvatores — visto che ha una delle più belle ouverture sinfoniche della storia del melodramma. La sera della première alla Scala il pubblico chiese quattro bis della prima romanza di Ninetta, tanto che Rossini, che era al pianoforte, dovette alzarsi in piedi e dire, rivolto al pubblico: “Se la cantiamo ancora non arriviamo alla fine dell’opera”. Aveva un bel da scrivere Stendhal “la première è stata una delle più brillanti a cui abbia assistito!”. La critica fu più tiepida: troppa musica, troppi strumenti! E quei tambu- ri! Del resto si arrivava dal neoclassico, con tutto un altro tipo di musica, di composizione… È vero che non ha un’aria riconoscibilissima, ma l’Ouverture, usata da Kubrick in Arancia Meccanica e da Leone in C’era una volta in America, è davvero travolgente. Si sente il volo, è questo ad avermi ispirato per la parte della gazza — di solito rappresentata da un uccello impagliato o da un mimo che entra in scena e poi scompare — la scelta di un’acrobata: volerà riempiendo lo spazio orizzontale e quello verticale del palco».
A lei è affidato lo svolgimento dello spettacolo: «Muove le scene, accende le luci, determina le azioni nei momenti drammaturgici più importanti. Anche per dimostrare che alla fine tutto è un’illusione». Fa una pausa, riflette e continua: «Quest’elemento così anarchico, irrazionale come la gazza, che non ruba per mangiare ma per tenere qualcosa per sé scatenando così il dramma, mi ha fatto pensare a un vecchio detto: gli uomini fanno progetti, gli dei guardandoli sorridono. La vita è caos, ci illudiamo di governarla, ma non è come al cinema e a teatro, non c’è un copione». E per Rossini, «come per Shakespeare, l’uomo non è che una marionetta. Come dice Macbeth, “la vita è solo un’ombra che cammina, un povero attorello sussiegoso che si dimena sopra un palcoscenico per il tempo assegnato alla sua parte, e poi di lui nessuno udrà più nulla”. Il mondo è un teatro in cui gli esseri umani, come attori di passaggio, non possono prevedere come si svolgerà la commedia della vita».
Dare un nuovo sguardo alla regia, alle scenografie, all’ambientazione può indirizzare verso la lirica un pubblico più giovane? «Certo, purché si scrolli di dosso la polvere museale che negli anni le si è depositata. Un aiuto in questo senso può venire anche dalla direzione, fino a non molto tempo fa appannaggio degli uomini e oggi in mano anche alle donne. Certo, in Shakespeare, Molière o Pirandello conta la parola; la musica condiziona di più, è dionisiaca, lascia molto all’immaginazione. Bisogna essere delicati, e questo dipende dal direttore d’orchestra, dalla sua velocità: come mi disse anni fa Bruno Campanella, “il vero metronomo del direttore d’orchestra è il battito cardiaco”».
Napoletano di nascita ma milanese d’adozione, Salvatores considera l’approdo alla Scala «un onore» ma non ha niente a che vedere con l’ego, o i soldi e il prestigio: «È qualcosa di più intimo. Ho cominciato nel 1971, avevo 21 anni, andavo a fare le prove in quello che sarebbe poi diventato il centro sociale Leoncavallo. Ritrovarmi oggi qui, nella città dove sono cresciuto, mi fa provare un senso di incredulità. Sono felice di lavorare con molte delle maestranze di allora, di ritrovare macchinisti ed elettricisti di quegli anni. È come ritornare a casa dopo tanto tempo, e di questo devo dire grazie a Chailly, è stato lui a chiamarmi».
Avrà dovuto mettere da parte il cinema in quest’anno... Ride: «Sì, avevo in cantiere il sequel di Il ragazzo invisibile. I tempi si sono compressi, devo fare in modo che gli dei non sorridano troppo... Ogni nuovo film che comincio mi chiedo se sono capace, tutte le volte è un’avventura». Un’avventura? E l’Oscar? «Una delle cose che mi sono ripromesso dopo la statuetta per Mediterraneo è stato impormi di continuare a cambiare, di usare il superpotere dell’Oscar per progetti che non mi avrebbero mai approvato senza la statuetta, cercando sempre di alzare l’asticella». Tra i suoi film qual è il preferito? «Amo molto Educazione siberiana e Nir
vana, un esperimento assurdo venuto alla luce ben prima di qualsiasi Matrix, un precursore per certi versi e per certe realtà. Ma quello che amo di più è anche il più sfortunato, Denti. Quando l’ho girato ero un po’ depresso, nel suo delirio ha una formidabile potenza sperimentale. Sono affezionato anche a Marrakech Ex
press ma il film più bello è sempre il prossimo».