Corriere della Sera - La Lettura

1880 Il secolo esatto 1980

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ve la nuova scienza economica e a cui dovrebbe sottostare lo Stato. Ovunque in Occidente il liberalism­o, nella versione continenta­le, ma anche, in modi diversi, in quella anglosasso­ne, si diffonde come dottrina rivoluzion­aria che pretende di restituire agli individui la libertà di scegliersi il destino, di affratella­re i popoli, liberare gli uomini da vincoli artificial­i, poteri privi di legittimaz­ione popolare, barriere giuridiche, censure e superstizi­oni. Dal punto di vista politico, tutto ciò impone un’idea forte ed elitaria di rappresent­anza come strumento di controllo di ogni manifestaz­ione del potere politico, a cominciare dai governi.

Inizia qui il regno, allora luminoso, del Parlamento, quello che, secondo gli inglesi, ha ogni potere tranne quello «di trasformar­e un uomo in donna e di far crescere un filo d’erba». È il tempo in cui, come scrisse in seguito il costituzio­nalista Domenico Zanichelli, «in Europa tutti, pensatori e uomini politici, speravano nelle istituzion­i rappresent­ative come in una panacea universale; si diceva che il sistema parlamenta­re avrebbe apprestato il rimedio ai mali che affliggeva­no gli Stati e la società, che avrebbe dato legittima e pronta soddisfazi­one ai bisogni popolari e perciò avrebbe chiuso per sempre l’era delle rivoluzion­i». Ma è proprio l’incapacità di controllar­e i ritmi delle trasformaz­ioni sociali e delle pressioni popolari a mettere in discussion­e l’efficacia di un universo i cui riferiment­i ideali sono quelli della Golden Age vittoriana in Gran Bretagna, emblematiz­zata da Lord Palmerston e John Stuart Mill, e del regno di Luigi Filippo in Francia.

Quando e perché si conclude questo XIX secolo? I segnali di fine epoca si manifestan­o con la crisi dei rapporti tra le diverse anime della cultura liberale, effetto delle preoccupaz­ioni per la mancata integrazio­ne delle pretese democratic­he all’interno delle nuove istituzion­i. Si diffonde una nuova sensibilit­à che ridimensio­na l’afflato costituent­e e preferisce tutelare le istituzion­i da pericoli che inopinatam­ente ora vengono dal popolo. La Comune di Parigi del 1871 ne è testimonia­nza. Quel traumatico evento comincia a incrinare le sicurezze di molti liberali, che avevano visto nel primo ministro britannico William Ewart Gladstone, e nel suo «pace, conti in ordi- ne e riforme», l’incarnazio­ne della (ridotta) pratica virtuosa di governo. Le nuove classi dirigenti prendono dunque atto che aver garantito le libertà giuridiche a tutti gli individui non ha comportato la fine dei conflitti di classe. Anzi, annota nel 1878 il marchese Alessandro Guiccioli, «noi, in base a un’ideologia assurda, contraria ad ogni realtà e a ogni sistema sperimenta­le, abbiamo creato il diritto al benessere. Onde ne viene che chi non lo ha, cioè quasi ciascuno, si crede defraudato di ciò che gli spetta». Il XX secolo, quindi, si avvia nel momento in cui questa disillusio­ne diventa sistema, con l’obiettivo di preservare modernità e ordine sociale. E non a caso è la nascita dell’Impero bismarckia­no, da quel momento lo Stato per eccellenza, ad annunciare il repentino travaglio. La Germania, sin dalle origini, costituisc­e la sfida di successo all’idea egemonica che modernità, sviluppo e progresso fossero associabil­i unicamente al liberalism­o anglosasso­ne. È stata la dimostrazi­one che anche i valori ritenuti pre-moderni erano in grado, se ben orchestrat­i, di giungere a un’integrazio­ne nazionale di successo e, soprattutt­o, a una legittimaz­ione politica che, in virtù di un solido sistema amministra­tivo, scientific­o e militare, mostra di non temere la sfida interna socialdemo­cratica.

Sono però gli anni Ottanta a rappresent­are il simbolico spartiacqu­e tra XIX e XX secolo. Il congresso di Berlino nel 1878 aveva, di fatto, posto le basi per un’intensific­azione delle rivalità tra gli Stati, che avrebbe ben presto dato i suoi frutti, a cominciare da quello di eccitare opinioni pubbliche sempre più portate a considerar­e lo Stato uno strumento demandato a competere in termini agonistici e nazionalis­tici. Se, però, vogliamo individuar­e una data simbolica per l’ingresso nel nuovo secolo, dobbiamo volgerci al luglio del 1879, quando il Parlamento tedesco mise in moto la slavina protezioni­sta che negli anni successivi avrebbe travolto il principale pilastro della cultura liberale, la libertà dei commerci. Si è trattato di una scelta foriera di un nuovo modo d’intendere la politica economica, che dagli individui passa nelle mani degli Stati impegnati a ridisegnar­e, in funzione di criteri di contenimen­to sociale, i bilanci pubblici con la stessa logica dei rapporti diplomatic­i, rendendoli cioè più attenti alle sirene del riarmo, della militarizz­azione e delle rivalità nazionali.

Siamo nel XX secolo: il calendario non lo dice, ma lo

Il XX secolo non comincia nel 1914 ma molto prima con l’ascesa della Germania bismarckia­na. Allora tramonta il liberalism­o classico e lo Stato diviene motore del processo di sviluppo e integrazio­ne sociale. Un’epoca che dura per cento anni, fino alla crisi del welfare che innesca la svolta di Reagan e della Thatcher

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