Corriere della Sera - La Lettura
Trasgredire per progredire
Virtù Prometeo insegna: l’uomo tende a superare i limiti geografici, sensoriali, etici Anche la vita biologica si evolve per mutazioni dalla norma
La disubbidienza dovrebbe essere promossa a virtù, per riconoscerne i meriti, sia pure con le dovute cautele. Il dilemma di Prometeo, negli articoli di Adriano Favole e Giulio Giorello («la Lettura» #274), ripropone una questione etica finora avvolta nell’ambiguità. Perché non si potrà negare che, fin da tempi remoti, l’inosservanza delle norme abbia permesso di superare i limiti entro i quali l’uomo ha ristretto il suo campo d’azione per ignoranza, pigrizia o viltà. Il primo fu proprio Prometeo, che cedette all’impulso di donare il fuoco all’uomo (metafora della conoscenza) e perciò venne punito da Zeus per avergli disobbedito. Ma se tutti si fossero uniformati come Epimeteo, il fratello di Prometeo che «riflette in ritardo», non vi sarebbe stata storia.
Nessun dubbio: la storia dell’uomo è una sequenza di reiterate disubbidienze e di continuo superamento dei limiti geografici, sensoriali, tecnologici, etici. Non un invito a sovvertire l’ordine costituito, ma una constatazione sulla scorta dei fatti storici che, in questo caso, collimano con l’evidenza scientifica.
La vita biologica nasce da uno scarto della norma, produttrice di una «diversità» (la vita come eccezione). In fisica termodinamica l’entropia, la misura della degradazione dell’energia, che è una forma di «obbedienza» alla naturale tendenza all’equilibrio termico, è combattuta dal suo contrario, la neghentropia. Così nella teoria dei sistemi la neghentropia impedisce l’immobilismo e la chiusura. Nella teoria dell’informazione persino il rumore produce senso ed è tanto più efficace quanto meno è probabile. Improbabilità, disordine, differenza di potenziale sono combinazioni di uno status che nel linguaggio umano si concretizzano nell’inosservanza della norma.
Michel Serres, in Il mancino zoppo (Bollati Boringhieri), conferma che la ricerca scientifica ha esiti casuali e le scoperte più importanti avvengono cercando altro. Disobbedendo così alla regola di un metodo, seguendo l’eterogenesi dei fini. La diversità è più feconda: sarà per questo che «i miti dell’antichità sono pieni di zoppi». Per contro Reinhart Koselleck, in Futuro passato (Clueb), ci avverte che il miglioramento avviene proprio grazie alla capacità di superare i limiti dell’esperienza.
Strano destino quello della disubbidienza: da sempre esecrata e repressa. Seguita da un castigo, da una punizione da parte di Dio e degli uomini, talvolta anche dalla natura, per aver infranto l’ordine, ignorato la regola, contravvenuto a un obbligo. Dal peccato originale che spinse Adamo ed Eva a cogliere il frutto proibito, l’esistenza futura si è giocata tutta nella ricerca di una riparazione per il torto inferto all’Assoluto. Se Adamo non avesse osato sfidare l’ordine superiore, ci godremmo ancora le delizie dell’Eden. Obbedienti. Annoiati e incoscienti.
Ma la disubbidienza è pur sempre una forma di arroganza. Si mettono in discussione l’autorità e il rispetto della giusta misura ( katà métron), che sia la durata della vita o i limiti delle capacità umane. Arrogante è chi si ritiene in diritto di superare il limite prestabilito e perciò è punito dalla natura, se la sua azione ne ha infranto le leggi; dai tribunali se ha violato le leggi umane. Il katà métron è una variabile dipendente, fluttua come un titolo in Borsa, a seconda della cultura di un popolo o della sensibilità etica. Oggi volare non è un gesto di arroganza, ma pretendere di farlo al tempo di Icaro era un delitto da pagare con la vita.
I Greci si erano inventati persino una divinità per ridurre all’obbedienza, la Nemesi, dea alata della giustizia, munita di spada e bilancia. Pronta a punire ogni segno di superbia, raddrizzatrice di torti e restauratrice di equilibri messi in discussione, per rimettere l’uomo al suo posto. Da mano armata degli dèi a forza distruttiva della natura il passo è breve. Nella sua forma moderna, la Nemesi storica vendica le vittime di soprusi compiuti dal malgoverno: non più di un atto consolatorio.
Nella convinzione che la giusta misura non fosse fissata per sempre, l’uomo ne ha allargato i limiti. Col tempo l’asticella è stata posta sempre più in alto, sicché l’area dell’ubbidienza si è fatta progressivamente più vasta e l’arroganza ha dovuto trovarsi nuovi e più scomodi settori d’intervento.
L’ubbidienza, al contrario, è premiata. Vista come il comportamento corretto da tenere sia in campo religioso sia in quello civile. Fedeli ossequiosi, buoni cittadini, esecutori fidati. Si comincia a ubbidire in famiglia, si prosegue nella scuola con maggior rigore, sotto le armi, di fronte all’autorità e al datore di lavoro. Una vita in conformità delle regole. L’espansione dell’ubbidienza è stata promossa senza sforzo nella convinzione che fosse l’unico modo per assicurare alla società un’esistenza pacifica e ordinata. Si è rivelata più un problema politico che etico. La modernità se n’è fatta carico e l’ha adottata come obiettivo ideale da raggiungere con le buone o, quando non è bastato, con le cattive.
In un primo momento la modernità era nata come risposta a un’esigenza di ordine e si era affermata grazie alla disubbidienza. Vivificata da questa apparente e insanabile contraddizione, ha visto le moltitudini farsi popolo, sottomettersi a un sovrano, unirsi in uno Stato regolato da leggi e regole certe per poter sopravvivere. Invocando l’ordine per vincere la paura, fino a giungere — nella società di massa — alla sua massima espressione: l’obbedienza collettiva. I regimi totalitari ne hanno sfruttato la buona reputazione per controllare le masse e mantenere il potere. È il delirio del conformismo, la sua forma più alienata e aberrante. Hannah Arendt ha mostrato in La banalità del male (Feltrinelli) il volto perverso dell’obbedienza e come la falsa coscienza del boia nazista possa nascondersi dietro la giustificazione di aver compiuto il proprio dovere eseguendo gli ordini.
Alla massa passiva e ubbidiente si oppone, per contrasto, il capo carismatico, al quale è riconosciuto il diritto-dovere di disubbidire alla legge. La sua arroganza non è punibile, anzi l’uomo-massa l’accetta come naturale e se ne compiace, riconoscendogli il potere di violare le regole che egli stesso ha dettato. Questo perché, come ha teorizzato Carl Schmitt, riprendendo la lezione machiavellica del Principe, «sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione». Anzi, con un rovesciamento arbitrario che solo l’autoritarismo riesce a giustificare, chiunque decida dello stato di eccezione diventa il sovrano.
Allora perché l’obbedienza è premiata e la disubbidienza è punita?
La risposta sta nella struttura stessa della società, che si deve difendere ponendo limiti alla libertà d’azione, prescrivendo obblighi nell’interesse di tutti. Ma c’è sempre qualcuno che si esprime «contro», gettando le basi per migliorare la società. Anche il sapere è un gesto di ribellione nei confronti dell’autorità, che mantiene e rafforza il suo potere nell’ignoranza e nell’inconsapevole sottomissione.
Se la disubbidienza è l’origine e la ragione stessa della vita, allora parafrasando si potrebbe dire vive la désobéissance, che — nello spirito di un grande disubbidiente come Stéphane Hessel — è il necessario corollario dell’indignazione.
Nella spirale del conformismo La modernità ha visto le moltitudini farsi popolo, sottomettersi a un sovrano, unirsi in uno Stato governato da regole certe per sopravvivere. S’invoca l’ordine per vincere la paura, fino a giungere alla sua massima espressione: l’obbedienza collettiva