Corriere della Sera - La Lettura
L’America è un esperimento (non la Germania degli Anni 30)
Jeffrey Eugenides: troppo isterismo su Trump ma nel dubbio leggo le «Memorie del Terzo Reich»
Jeffrey Eugenides è un mago nel sorprendere le correnti letterarie e anticipare il pensiero collettivo. Nato a Detroit, Michigan, l’8 marzo 1960 da una famiglia di origine greca, Eugenides si è trasferito a Providence (Rhode Island) e in California per studiare letteratura in due tra le più pres t i gi ose università degli St at i Uniti: Brown e Stanford. Nel 1993 il suo romanzo Le vergini suicide (Mondadori) ha rotto molti schemi grazie all’uso di un narratore in prima persona plurale. Nove anni dopo, con il secondo romanzo Middlesex, premio Pulitzer per la narrativa, Eugenides ha ancora una volta innovato la letteratura americana con il racconto in prima persona onnisciente di una ragazzina che si scopre ermafrodita ed esplora la propria eccentricità biologica: era il 2002, molti anni prima che le tante discussioni sull’ideologia di genere diventassero argomento diffuso nel nostro immaginario.
Insegnante di scrittura creativa a Princeton, New Jersey, dove abita con la moglie Karen Yamauchi, fotografa e scultrice, e la figlia Georgia, il suo ultimo romanzo è stato pubblicato nel 2011. Si intitola La trama del matrimonio (Mondadori) ed è la storia di tre studenti all’ultimo anno di college che mettono in discussione tutto ciò che hanno imparato dalla letteratura. Qui Eugenides ragiona sulle pulsioni personali e sul ruolo che il mondo del lavoro e la società occidentale affidano a ciascuno rispetto all’essere maschio o femmina.
Al di là delle tante riflessioni degli ul- timi anni se gli abitanti degli Stati Uniti saranno mai pronti a eleggere un presidente donna, in un’intervista a «la Lettura» del gennaio 2015, Eugenides aveva predetto che il prossimo presidente degli Stati Uniti non sarebbe stato né un membro della famiglia Bush (Jeb) né un Clinton. Una profezia corretta: Trump all’epoca non era nemmeno tra i candidati. «Accetto il ruolo di Nostradamus», ci racconta oggi. «Ho avuto ragione su Bush e Clinton, però avevo anche predetto che il candidato repubblicano sarebbe stato Chris Christie, quindi non sono stato accurato fino alla perfezione. Comunque, a mia difesa, nella corsa alla Casa Bianca Christie era la persona più simile a Trump, quindi ho previsto anche questo. Il desiderio di avere un millantatore che finge di dire le cose come stanno e invece racconta bugie».
Le va di azzardare una nuova profezia sugli Stati Uniti tra due anni?
«Il pendolo comincerà a oscillare indietro, come tende a fare qui. Non so di quanto. Ma mi aspetto che i Democratici ne traggano profitto, probabilmente non abbastanza per modificare il Senato o la Camera dei Rappresentanti, ma forse abbastanza per contenere la corrente. Sulla situazione attuale sembro essere meno isterico della maggioranza degli scrittori che conosco. In generale credo che Trump voglia piacere, voglia buoni giudizi, quindi modererà le proprie posizioni, una volta arrivato alla conclusione che sta perdendo popolarità. Nel frattempo verranno fatti danni significativi all’ambiente, alle relazioni internazionali, all’economia. Sono preoccupato per l’apparato politico, il sistema educativo del Paese, la tenuta del tessuto sociale e
civile. Ma penso che ci muoviamo tra alti e bassi, è sempre stato così e sempre sarà così. Ora il Paese è proprio in basso. Allo stesso tempo ci sono momenti in cui non sono in grado di conservare il mio equilibrio e io stesso inizio a essere un po’ isterico. Di recente ho iniziato a leggere Memorie del Terzo Reich, l’autobiografia di Albert Speer. E devo dire che alcune delle corrispondenze che vi ho trovato sono estremamente inquietanti. Abbiamo dunque bisogno di stare all’erta. Gli Stati Uniti non sono la Germania degli anni Trenta. L’economia non è in uno stato di disastro, per dirne una. Però abbiamo un presidente a cui piacerebbe essere un autocrate, quindi non possiamo abbassare la guardia. Ad ogni modo non avverto che la maggior parte delle persone la stia abbassando. E su questo si posa la mia speranza. Ma quanto verrà perduto prima di raddrizzare la nostra rotta? Questo è il problema».
Ci può aiutare a comprendere perché sembra così difficile incontrare e parlare con qualcuno che ha votato Trump?
«Forse perché abita in Italia e viene negli Stati Uniti solo in visita. Mi creda, ce ne sono moltissimi in giro. Lo Stato di cui sono originario, il Michigan, a queste elezioni ha scelto Trump. Posso farle alcuni nomi. Però sembra essere arrivato il momento in cui gli artisti americani si espongono sulla politica attuale in modo collettivo. Non è poi così comune nel mondo culturale americano, giusto? Non è così normale come lo è in Europa, no. Infatti solo i giornalisti europei mi fanno domande sulla politica. Nessuno presta attenzione a ciò che dicono gli scrittori, qui».
È questo il motivo per cui gli scrittori europei sembrano essere più pronti a parlare di politica rispetto ai colleghi americani?
«Politicamente negli Stati Uniti le cose sono state abbastanza stabili per un periodo molto lungo. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, fondamentalmente. Certo, abbiamo avuto turbolenze, come nel corso della guerra del Viet- nam e di sicuro durante le lotte per i diritti civili negli anni Sessanta. Ma il funzionamento del governo e del sistema politico non sono mai stati messi in dubbio. Il Paese poteva essere nel caos, ma le sue istituzioni non lo erano. Ci sentivamo come se potessimo affidarci a loro, che ci avrebbero capito, e così facevano. Durante i miei anni di formazione, la Corte Suprema era di vedute larghe. Al Congresso regnava una certa civiltà. Il popolo credeva nella stampa, che non era di parte. Tutti questi elementi ora o sono in dubbio o sono stati spezzati. Non siamo più sicuri che le nostre istituzioni possano occuparsi dei problemi che ci troviamo ad affrontare. In un certo senso, gli scrittori americani si sono concessi il lusso di trascurare la politica, benché avessero tale inclinazione. Ora questo lusso non ce l’hanno più».
Qual è la più grande lezione che ha imparato crescendo a Detroit?
«Che nulla rimane. La stessa lezione che Buddha ha imparato sotto l’albero della Bodhi».
Oggi Detroit sembra essere una città estremamente creativa per qualsiasi artista. È forse arrivato il momento in cui i suoi abitanti potranno tornare a sentirsi orgogliosi come nel primo Novecento?
«Lo sento dire spesso. Soprattutto, mi perdonerà, da giornalisti europei che non sono mai stati a Detroit. La mia città natale è in una situazione decisamente migliore di quanto lo fosse venti o trent’anni fa, ma è ancora assediata da una miriade di problemi. Il motivo per cui il Michigan ha scelto Trump è perché lo Stato, e l’intera Rust Belt, non sta andando economicamente bene. È difficile immaginare che Detroit possa recuperare il suo antico splendore, fintanto che ciò non cambierà. Detto questo, la bella notizia è che stranieri intelligenti hanno una visione positiva di Detroit. Detroit è di nuovo alla moda. È in ripresa. Ma c’è ancora molta strada da fare. Nessuna città può davvero venire salvata soltanto perché è alla moda. O per l’arrivo di molti laureati in scuole dell’arte. A Detroit le scuole sono in pessime condizioni, una situazione che il nostro segretario dell’Istruzione, Betsy DeVos, ha solo reso peggiore durante il periodo trascorso da quelle parti (dando sostegno alle char
ter school, sostenute da fondi pubblici ma gestite privatamente, ndr). Finché le scuole non miglioreranno, le famiglie non torneranno indietro; poi bisogna risistemare il gettito fiscale, il che è necessario per qualsiasi svolta. Guardate, io sono di Detroit. Noi abbiamo la tendenza a essere realisti. Anche un po’ cinici. Detroit non è Parigi negli anni Venti e nemmeno Berlino alla svolta del secolo. Non è una capitale. È incagliata in una parte del Paese che sta passando un periodo difficile. Una città non può essere resuscitata dalla sola speranza. Ha bisogno di denaro. Detroit era una città da un’unica industria: le macchine. Le macchine adesso vengono costruite in tutto il Paese e pure all’estero. La città ha qui ndi bi s ogno di nuove i ndustri e . Quando inizierò a vedere un mucchio di nuove industrie trasferirsi a Detroit per trarre vantaggio dalla convenienza del mercato immobiliare e del costo della vita, comincerò a essere più ottimista. Ma questo è un grande Paese, il clima altrove è migliore e per il momento la maggior parte dell’azione è a Ovest, non nel Midwest».
Quindi l’arte non sarà nemmeno in grado di aiutarci a fare un po’ d’ordine nel mondo occidentale.
«Lasciatemi rispondere in questo modo. È molto probabile che Donald Trump non abbia mai letto un romanzo in vita sua. O che non sia mai stato interessato a qualsiasi opera d’arte. Un uomo con nessuna curiosità per le altre persone si rivela essere un uomo che non ha interesse per l’arte. Al contrario, Barack Obama da ragazzo desiderava essere uno scrittore di romanzi. Ha scritto libri (invece che farli scrivere a un ghostwriter) e ha letto romanzi. L’arte non può fare ordine nel nostro mondo occidentale. Però può fare ordine nella mente di quelle persone a cui abbiamo affidato il nostro sistema politico. L’arte deve essere pensata come una proprietà nutritiva per preparare i leader e i cittadini sia alla capacità di pensare, ragionare ed esercitare empatia, sia di ridere. Il senatore Al Franken ha ragione a dire questo: Donald Trump non ride. Nessuna meraviglia che nemmeno legga». Ha un nuovo libro in uscita?
«Sì, una raccolta di racconti che negli Stati Uniti uscirà il prossimo autunno». Affronta anche temi attuali?
«Uno dei racconti della collezione si chiama Great Experiment (Grande esperimento). L’ho scritto qualche anno fa. Riguarda un poeta che, sentendosi messo in panchina dal boom del mercato azionario, diventa un malversatore. Il titolo deriva da de Tocqueville e la storia è costellata di sue citazioni: i suoi peana a questo Paese e al grande esperimento che è stato, riunendo tantissime persone differenti in un continente nuovo, o comunque nuovo per loro. Ho combattuto con quest’idea a lungo, molto prima dell’arrivo di Trump — l’idea dell’America come esperimento. Ciò significa che ci potrebbe condurre a una grande scoperta o che potrebbe fallire. Una scommessa, in qualsiasi modo la si guardi. Il mio protagonista fa la propria scommessa e ne paga il prezzo, ma implicita alla storia è questa nozione dell’America come un posto dove le persone creano il proprio Paese e il proprio destino. De Tocqueville era stupito dal livello di coinvolgimento politico e civico della prima America. L’America sta adesso tornando a sentirsi di nuovo a quel modo. Ecco, questo per me è motivo di speranza».