Corriere della Sera - La Lettura
L’antropologo diventa un po’ poeta per penetrare tra i popoli dei ghiacci
Matteo Meschiari con Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci (Exorma, 2016) consegna al lettore un testo di non facile interpretazione. Il libro contiene sette saggi, in cui l’autore — antropologo e docente universitario — analizza come nel corso degli anni si sono modificate, corrotte e scomparse alcune civiltà boreali; una sorta di itinerario, dal Canada alla Norvegia alla Groenlandia, per dare conto di un fenomeno sconosciuto che potremmo definire il colonialismo dei ghiacci. A creare ancora più interesse, oltre alla descrizione di questo vero e proprio buco nero, che ha inghiottito intere civiltà, è la lingua con cui il libro è scritto. Artico nero, pur essendoci alla fine una precisa bibliografia, non vuole essere un saggio scientifico come lo stesso autore certifica nell’introduzione: «Provo a dire la verità, ma provo a dirla in un modo che è già invenzione». Meschiari mantiene fede a questo suo proposito e nei sette saggi che compongono il testo lentamente la scrittura da scientifica si fa via via più suggestiva, così alla prosa si affiancano squarci di descrizioni liriche, flussi di coscienza, lasse di poesia. La motivazione etica alla base di questa scelta è chiara: l’antropologo non è colui che divide il mondo in «noi» e «loro», donando patenti di superiorità, spacciandole per studio scientifico, ma è colui che ci restituisce la voce di personaggi e di tempi remoti, come a suggerirci che oltre al Dna mitocondriale di un antenato si deve prestare attenzione alla sua storia, perché ciò che ora è morto nel ghiaccio un tempo fu un essere umano vivente.