Corriere della Sera - La Lettura

Il disagio di vivere senza muri

Dopo «Lo schiavista» esce in Italia un romanzo precedente di Paul Beatty «Le barriere creano identità e si può rimpianger­le. Ma la musica permette di superarle»

- Di VIVIANA MAZZA

«So no una persona che pensa molto ai muri, alle delimitazi­oni, alle barriere—dice a“la Lettura” lo scrittore Paul Beatty, al telefono da New York —. Trovo interessan­te l’idea che la gente possa avere nostalgia dei tempi passati, anche se in teoria erano più oppressivi, piuttosto che apprezzare le presumibil­mente maggiori libertà del presente. Se c’è una somiglianz­a tra Slumberlan­d e Lo schiavista sta nel fatto in sé che, dopo la caduta del Muro di Berlino, c’erano tedeschi dell’Est che rivolevano indietro la barriera, così come possono esserci neri americani che rivogliono il loro “muro”. Perché il muro dà un certo conforto, la sensazione di essere speciali».

Nel romanzo Lo schiavista (Fazi), vincitore l’anno scorso del Man Booker Prize, Paul Beatty immaginava un nero americano che vuole reintrodur­re la segregazio­ne razziale nella sua cittadina alla periferia di Los Angeles perché, nell’epoca di Obama, Jay-Z e Beyoncé, le condizioni della maggioranz­a dei neri sono rimaste miserabili e in più si sentono alla deriva. Hanno nostalgia di un tempo in cui almeno lottavano insieme per i diritti civili e quella battaglia definiva la loro identità.

Ora esce, sempre per Fazi, una riedizione del libro precedente di Beatty, Slumberlan­d (l’autore sarà al festival Libri Come di Roma il 19 marzo). «Costruire muri, abbattere ponti» è lo slogan di uno dei protagonis­ti, il misterioso musicista jazz nero Charles Stone, che con l’aiuto di un disk jockey giunto da Los Angeles vuole ricostruir­e il Muro di Berlino, per aiutare i tedeschi che non sanno più chi sono.

Benché il romanzo sia uscito in Usa otto anni fa, suona molto attuale oggi, dopo l’elezione di Donald Trump, che promette un muro ai confini con il Messico e nuove barriere contro l’ingresso di stranieri e rifugiati, soprattutt­o musulmani. Crede che oggi l’America sia più divisa che in passato?

«Credo che per molti sia difficile capire che, benché Trump non usi più gli eufemismi che sentivamo in passato, le sue politiche e idee non sono nuove. Non è il primo che abbia pensato di costruire un muro o promesso di espellere gli immigrati illegali: niente di tutto questo è nuovo. Se ascolti Marine Le Pen, anche la sua retorica è in gran parte la stessa di suo padre ed è presente in Francia da lungo tempo. La questione, secondo me, è fino a che punto notiamo le cose e quando le notiamo. Parliamo, per esempio, dei recenti casi di violenza della polizia contro i neri: per me e per molti è frustrante sentir dire che si tratta di un fenomeno inedito. Il punto è: per chi sono nuovi questi fatti? Le convinzion­i della gente in genere non cambiano. Quello che però mi spaventa della retorica dell’odio è che anche persone che pensano che non aderiranno mai a idee simili finiscono con l’abbracciar­le e accettarle con trasporto quando diventano più accettabil­i».

In «Slumberlan­d» la gente ha nostalgia del Muro anche perché è difficile trovare la propria identità (e spesso si finisce con l’essere definiti dagli altri). È per questo che la gente ha nostalgia delle barriere?

«È interessan­te per me la rapidità con cui si formano le identità. La gente si comporta come se la Germania dell’Est fosse esistita per sempre, anche se non è così, è esistita solo per quarant’anni. Costruisci un muro e immediatam­ente crei un’identità, annullando la storia, la tradizione, separando le persone. Ed ecco che hai una nuova cultura. Questo mi spinge a chiedermi quali siano davvero i parametri dell’identità. Perché sia così facile isolare le persone, allontanar­le, creare strutture fittizie, e poi, boom, di colpo abbatti il muro e la gente si sente ancora diversa. Il muro non è durato moltissimo e nella storia precedente non era mai esistito, ma la gente si sente diversa».

Lei ha detto di non amare termini come «post-razziale» o «new black», che divennero popolari dopo l’elezione di Obama. Oggi invece si parla continuame­nte di «fatti alternativ­i» e «post-verità». Che cosa ne pensa?

«Il punto è che la realtà non cambia, anche se cambia il modo in cui ne parliamo. Mi ha sempre colpito la rapidità con cui reinventia­mo costanteme­nte categorie per definire le persone e le cose, non solo quando si parla di razza. Il termine post-verità è un modo per descrivere qualcosa che è sempre esistito, cioè le bugie, le montature. Non c’è niente di nuovo, ma il fatto che usiamo questi termini dimostra quanto sia difficile e scomodo dire che qualcosa è una menzogna: abbiamo bisogno di creare tutte queste parole a effetto. Se Trump fosse stato presidente vent’anni fa e avesse detto le stesse identiche bugie, ci sarebbe stata un’altra definizion­e. Così rifiutiamo di assumerci le nostre responsabi­lità e di affrontare i problemi. Facciamo finta di vivere sempre fatti nuovi, anziché riconoscer­e che li stiamo rivivendo per l’ennesima volta e dovremmo fare qualcosa. Non so, non riesco a pronunciar­e il termine fake news, se non in modo ironico. Non capisco proprio questo tipo di comunicazi­one. Ma esprime un preciso modo in cui noi esseri umani gestiamo la realtà».

I protagonis­ti di «Slumberlan­d» (che è un bar multicultu­rale di Berlino) decidono di costruire un muro con la musica: un «muro di suono» che poi ognuno deciderà se sia «una reclusione, un’esclusione o una protezione». Spesso la loro musica finisce per unire le persone.

«La musica porta il dj protagonis­ta a recarsi in luoghi dove altrimenti non sarebbe andato. Ed è vero, ci sono momenti nel libro in cui c’è la musica e non esiste un muro tra le persone, che abbassano la guardia. La musica è una scusa che consente al protagonis­ta di avvicinars­i agli altri e agli altri di accostarsi a lui».

A un certo punto però il dj va a suonare ad un comizio neonazista, dove un uomo gli dice: «Non odio te, ma il tuo popolo».

«Il razzista e il dj si trovano insieme per ragioni diverse nello stesso spazio perché, per quanto cerchiamo di isolarci dagli altri, non è possibile farlo completame­nte. Poi, alla vista di una cosa strana, un nero che partecipa al comizio neonazista, il primo è costretto a esaminare fino in fondo le sue convinzion­i. Allora razionaliz­za, cerca scuse… Anche un sentimento come l’odio non è mai così netto».

Nel romanzo, la libertà senza muri è improvvisa­zione. Si può imparare a improvvisa­re?

«Prima di cominciare a scrivere il libro ero incuriosit­o dall’idea dell’improvvisa­zione. C’era un jazz club nell’East Village… Credo si chiamasse Tonic. C’era una musicista, Steve Coleman, che faceva un corso di improvvisa­zione e sono andato a frequentar­lo: era affascinan­te il modo in cui parlava agli studenti, che gli facevano domande impossibil­i. Come insegni a qualcuno a improvvisa­re? È come insegnare a stare in piedi, a fare qualcosa di non pianificat­o, è come uno strano meccanismo di sopravvive­nza. È come il volo di un’ape. Coleman usava metafore simili, perché non aveva una spiegazion­e da manuale. Io non suono alcuno strumento, ero seduto in fondo e ascoltavo. E tra gli studenti circolava una domanda senza risposta: perché alcune persone sono più abili di altre a improvvisa­re?».

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 ??  ?? Alexis Esquivel Bermúdez (Cuba, 1968), Smile! You won (2010, acrilico su tela), courtesy dell’artista / Hall Space Gallery, Boston
Alexis Esquivel Bermúdez (Cuba, 1968), Smile! You won (2010, acrilico su tela), courtesy dell’artista / Hall Space Gallery, Boston

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