Corriere della Sera - La Lettura
Nevo, un condominio di monologhi
«Tre piani» narra le vicende di alcuni nuclei familiari. Leggi e capisci perché quando sei in Israele hai voglia di fuggire e quando sei lontano hai voglia di ritornare
Non posso certo ritenermi un habitué di Israele ma ci sono stato diverse volte, sin dall’infanzia. Non per lunghi periodi, ma ogni volta quanto bastava per farmene un’idea e rimanerne suggestionato. La cosa che conosco meglio è il sollievo che mi prende ogni volta che riparto. E non vorrei che questa cosa venisse equivocata. Tale senso di liberazione non deriva da alcun disagio specifico. È più che altro una questione d’intensità. Israele è un posto intenso, troppo intenso per i miei gusti e per i miei nervi. Girovagando per le viuzze di Gerusalemme che chissà perché mi ricordano Roma, o passeggiando per il lungomare di Tel Aviv così simile a certe distese balneari di Los Angeles, mi guardo intorno, vedo la gente vivere e non faccio che ripetermi: ti rendi conto? Dopo migliaia di anni ecco un posto dove essere ebrei non è una cosa strana e pericolosa. Anzi, dove è assai più strano e pericoloso non esserlo. Una constatazione che dovrebbe entusiasmarmi, o se non altro rassicurarmi, che invece mi confonde e mi preoccupa senza che io sappia bene il perché. Una volta un’amica che vive lì da tanti anni mi disse: «Israele è talmente piccola che in qualsiasi parte ti capiti di stare puoi tornare sempre a casa per cena». «E del resto» ha aggiunto subito dopo «non c’è confine che non ci sia ostile». Che il mio disagio non dipenda allora dalla claustrofobia? Sentendomi in trappola e senza vie di fuga, sogno sterminate praterie e maestosi picchi innevati.
Non vi molesterei con queste ubbie se in qualche modo non mi aiutassero a entrare nel mondo di Eshkol Nevo, e dei suoi romanzi. Mi chiedo come mai ogni volta che esce un suo nuovo libro io mi senta in dovere e in diritto di parlarne. Da cosa dipende questa fedeltà? È dettata dall’abitudine o dall’ammirazione? Da una sintonia o dalla familiarità che c’ispira l’ultimo romanzo di uno scrittore che amiamo? Tutte queste cose assieme, certo, ma anche qualcos’altro. Tra gli scrittori israeliani Nevo è quello che mi parla meglio dell’Israele che conosco. I suoi romanzi sono pervasi da inquietudini, elettricità, disagi e irresolutezze, riscattate da sketch comici e da gioie epifaniche: tutta roba che conosco piuttosto bene.
Nevo è quasi un mio coetaneo, classe 1971. L’ho incontrato una volta a Gerusalemme in un’occasione pubblica e fu straordinariamente cortese e sollecito, quasi fraterno. Parla l’inglese impeccabile degli israeliani che hanno studiato in America. È aitante, simpatico e avvenente. Nel vederlo non diresti che scrive libri così belli. Ma d’altronde, di chi lo diresti? Sebbene ciò che sto per dire sia il genere di cose che non amo venga detta di me, non posso fare a meno di notare la somiglianza tra lui e i suoi personaggi. D’al- tronde i romanzi di Nevo hanno il pregio di somigliarsi pur non somigliandosi. Gli eroi e le eroine di Nostalgia, de La simmetria dei desideri o di Soli e perduti potrebbero andare a cena assieme tutte le sere senza destare alcun sospetto. Sono individui più o meno benestanti che vivono come vivono i benestanti in Israele, ossia in modo molto casual, se non addirittura austero. Fanno i giornalisti, avviano startup, investono in Borsa, sono giudici della Corte suprema, accademici di lungo corso; amano gli sport (soprattutto il calcio), la cucina etnica, il cinema americano (quello hollywoodiano); viaggiano parecchio, hanno il vizio della lettura e una certa consuetudine con l’adulterio. Sono sensuali, sentimentali, preda di improvvise nostalgie e fin troppo inclini al pentimento e al senso di colpa. Sono sempre lì a rimuginare su ciò che hanno detto, su ciò che avrebbero potuto dire e su ciò che a questo punto non diranno più. Sono ossessionati da quello che è andato storto e da quello che è andato perduto. Per questo certe volte sono ridotti a semplici voci. Come molti altri scrittori israeliani, Nevo è un asso nella tecnica del soliloquio.
In questo nuovo romanzo, Tre piani (Neri Pozza), ne fa mostra con la solita leggerezza e audacia. Nevo mette in scena le vicende di tre nuclei familiari che abitano nello stesso condominio. Affida agli inquilini della signorile palazzina di un sobborgo di Tel Aviv il gravoso compito di raccontare la propria versione dei fatti. Al primo piano è Arnon, un giovane marito erotomane e violento, a confessare a un amico scrittore i suoi drammi familiari: è ossessionato dal sospetto che la sua secondogenita sia stata abusata, ma ciò non gli impedisce a sua volta di intrecciare una bieca relazione adulterina con una ragazzina francese.
Al secondo piano c’è Hani, una casalinga con due figli piccoli e un marito assente e inaffidabile. Hani scrive una lunga lettera a Neta — che vive in America — per dare voce alla propria paura di essere diventata pazza.
Al terzo piano troviamo Drova, una giudice in pensione, che parla con il marito morto a una segreteria telefonica. Lei sente l’esigenza di ripercorrere retrospettivamente le tappe che hanno spinto Arad, il loro unico figlio, a troncare ogni legame con la famiglia.
Come si vede c’è qualcosa di spettrale, se non addirittura di fantasmatico, in questi monologhi disperati. E il miracolo è tutto qui: che la vita emerga spumeggiante da questa specie di catacomba residenziale.
Parlavo prima di un senso di asfissia, di claustrofobia. Nevo è ossessionato dai nidi domestici e non ama i quadri en plein air. Certo, ambientare un romanzo in un condominio non è cosa nuova, anzi, si tratta di uno stratagemma a cui i narratori ricorrono volentieri: valgano per tutti gli esempi di Perec e di Ballard. Ma la forza di Nevo è nelle sue voci. Con mirabile talento mimetico, con tenera empatia, è un asso nel far parlare i suoi personaggi, nel distinguerli l’uno dall’altro, nell’isolarli, nel comprenderli intimamente. La sua scrittura ha una tale maturità che non sente più l’esigenza di trovare un territorio comune tra le storie che racconta. Le vicende sono in pieno svolgimento, non hanno un reale epilogo, suonano come giganteschi punti interrogativi. Non c’è alcuna moralità, se non forse nella moralità espressa da ogni racconto ben fatto.
Leggo Nevo e ogni volta capisco perché quando sei in Israele hai voglia di fuggire, e perché quando sei lontano hai voglia di ritornarci.