Corriere della Sera - La Lettura

Ode all’impronta digitale che chiamiamo vita

Contempora­nei Amica e concittadi­na di Wisława Szymborska, la polacca Ewa Lipska intende l’esistenza e la scrittura come intersezio­ne fra individuo e specie, mentre incombe un sentimento di inconsiste­nza e di evanescenz­a della realtà

- Di ROBERTO GALAVERNI

Quasi sempre con i poeti polacchi, proprio come accade con quelli russi, c’è qualcosa da imparare. Non si tratta necessaria­mente della poesia ma di un presuppost­o che riguarda l’impostazio­ne poetica, qualcosa che si trova a metà tra la vita e la lingua, tra l’impulso creativo e il rigore morale. Il motivo sarà anche da cercare nelle terribili vicissitud­ini storiche di quei Paesi, ma certo è che dalla poesia dell’Est europeo arriva quasi invariabil­mente una fortissima indicazion­e di natura etica. La poesia sembra allora restituita a se stessa, alla sua necessità e integrità, alla sua esattezza, di contro al canto facile, all’approssima­zione, all’abbondanza falsa delle parole, all’arbitrio.

Nata a Cracovia nel 1945, Ewa Lipska appartiene senza dubbio a questo genere di poeti. Lo si può constatare leggendo Il lettore di impronte digitali e altre poesie, curato per Donzelli da Marina Ciccarini (il titolo completo appare nel frontespiz­io, non sulla copertina; il libro è uscito in Polonia nel 2015). La poesia polacca del Novecento fino agli anni presenti appare feconda e va- riegata come poche altre, ma il riferiment­o a Cracovia inevitabil­mente farà scattare nel lettore l’associazio­ne con Wisława Szymborska. E allora va detto subito che della sua celebre concittadi­na la Lipska, sebbene più giovane di oltre vent’anni, è stata un’amica e un’interlocut­rice molto importante. Una compagna di strada, insomma. Se si legge ad esempio Cianfrusag­lie del passato, la biografia della Szymborska scritta da Anna Bikont e Joanna Szczesna (è uscita due anni fa da Adelphi a cura di Andrea Ceccherell­i), si vedrà subito come proprio la Lipska ne costituisc­a una fonte quasi imprescind­ibile. Ma è proprio la qualità etica del loro sodalizio insieme esistenzia­le e poetico a risaltare con maggiore evidenza: «Noi, giovani di spirito, sì, ma per l’anagrafe due distinte signore, continuiam­o a scrivere come due liceali. Non è serio. È ridicolo». Sta anche qui il vincolo, l’obbligazio­ne verso la poesia di cui dicevo. Tanto più a fronte di vicende e pressioni storiche estremamen­te oscure, nel verso si vuole comunque preservare qualcosa di non compromess­o, di vitale: passione, allegria, benevolenz­a, umorismo, arguzia, senso del paradosso, presenza di spirito.

E dire che la Lipska di suo possiede una visione delle cose non certo facile o serena; una visione, detto in una parola, positiva. Si tratti di ricordi della giovinezza, di situazioni quotidiane e ordinarie, o anche di argomenti più generali nelle poesia a tema ( Il coraggio, Innamorame­nto, La solitudine, Qualche parola sull’etica, Il Big Bang, I progetti per il futuro), molto spesso le constatazi­oni cadono dure, con sarcasmo o amarezza, a volte perfino con rabbia: «Non so nemmeno/ se è la storia che ha creato noi/ o se noi abbiamo creato la storia./ Se siamo solo l’eco/ di un cuore altrui». Anzi, l’impression­e è che la voce poetica passeggi nel vuoto, aggrappand­osi a questo o quello spunto, o rimpalland­osi questa o quella domanda, come per ritardare a tempo indetermin­ato il momento della caduta.

Lo scetticism­o non risparmia nemmeno la poesia: «A volte/ i versi sono come cani abbandonat­i/ che abbaiano alla poesia». Le parole arrivano da una strana distanza, che non è distacco ma messa in prospettiv­a della vita, come una misura di sicurezza per provare a guardare e comprender­e senza scivolare nel buco nero della propria materia o, anche, come viene chiamato nella poesia omonima, nel «rebus» sordo e impassibil­e del mondo.

Questa distanza, anche dai baratri interiori, costituisc­e allora la condizione di vita, il respiro stesso della Lipska e della sua poesia. Il titolo del libro può ricordare un’asserzione di Gottfried Benn: «Per chi si sforza di dare espression­e al proprio interno, l’arte non è qualcosa che attenga alle scienze umane ma qualcosa di fisico, come l’impronta digitale». Ecco, si può dire che nella Lipska l’idea della vita e della poesia come impronte digitali, cioè come punto d’intersezio­ne tra individuo e specie, tra singolarit­à e proprietà comune, entri in cortocircu­ito con un sentimento d’inconsiste­nza e di evanescenz­a della realtà, dei volti individual­i, dei rapporti interperso­nali, delle percezioni, dei sentimenti, delle parole.

Per questo, come accade nella poesia che dà il titolo alla raccolta, il riferiment­o al web e al mondo virtuale (che del resto torna più volte nel libro) non si deve affatto ricondurre alla ritrosia di un’anziana signora verso qualcosa di nuovo. Al contrario, sembrerebb­e la grande metafora a cui la Lipska era da sempre predestina­ta. Quale immagine infatti poteva porre in maggiore evidenza il conflitto e anzi l’equivoco tra la realtà e la sua simulazion­e, tra fisico e immaterial­e, tra la presenza irripetibi­le e l’anonimato? Di conseguenz­a il libro intero si può leggere in modo antifrasti­co, come avvertendo in sottotracc­ia al discorso poetico una specie di controcant­o, quello della cattiva coscienza che quando prova ad afferrare il mondo stringe soltanto, come avrebbe detto il nostro Sereni, «una spalla d’aria». E così, nella poesia eponima della raccolta: «Poggiamo un dito/ sul lettore di impronte digitali/ e iniziamo ad amarci».

In fondo, è da sempre il rischio che corre ciascuno di noi: un amore senza corpo, un amore senza contatto. È anche per contravven­ire a questa regola che la Lipska ha scritto le sue poesie.

L’universo virtuale Il riferiment­o al web pare una grande metafora che pone in evidenza l’equivoco tra fisico e immaterial­e, tra la realtà e la sua simulazion­e

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