Corriere della Sera - La Lettura
Ode all’impronta digitale che chiamiamo vita
Contemporanei Amica e concittadina di Wisława Szymborska, la polacca Ewa Lipska intende l’esistenza e la scrittura come intersezione fra individuo e specie, mentre incombe un sentimento di inconsistenza e di evanescenza della realtà
Quasi sempre con i poeti polacchi, proprio come accade con quelli russi, c’è qualcosa da imparare. Non si tratta necessariamente della poesia ma di un presupposto che riguarda l’impostazione poetica, qualcosa che si trova a metà tra la vita e la lingua, tra l’impulso creativo e il rigore morale. Il motivo sarà anche da cercare nelle terribili vicissitudini storiche di quei Paesi, ma certo è che dalla poesia dell’Est europeo arriva quasi invariabilmente una fortissima indicazione di natura etica. La poesia sembra allora restituita a se stessa, alla sua necessità e integrità, alla sua esattezza, di contro al canto facile, all’approssimazione, all’abbondanza falsa delle parole, all’arbitrio.
Nata a Cracovia nel 1945, Ewa Lipska appartiene senza dubbio a questo genere di poeti. Lo si può constatare leggendo Il lettore di impronte digitali e altre poesie, curato per Donzelli da Marina Ciccarini (il titolo completo appare nel frontespizio, non sulla copertina; il libro è uscito in Polonia nel 2015). La poesia polacca del Novecento fino agli anni presenti appare feconda e va- riegata come poche altre, ma il riferimento a Cracovia inevitabilmente farà scattare nel lettore l’associazione con Wisława Szymborska. E allora va detto subito che della sua celebre concittadina la Lipska, sebbene più giovane di oltre vent’anni, è stata un’amica e un’interlocutrice molto importante. Una compagna di strada, insomma. Se si legge ad esempio Cianfrusaglie del passato, la biografia della Szymborska scritta da Anna Bikont e Joanna Szczesna (è uscita due anni fa da Adelphi a cura di Andrea Ceccherelli), si vedrà subito come proprio la Lipska ne costituisca una fonte quasi imprescindibile. Ma è proprio la qualità etica del loro sodalizio insieme esistenziale e poetico a risaltare con maggiore evidenza: «Noi, giovani di spirito, sì, ma per l’anagrafe due distinte signore, continuiamo a scrivere come due liceali. Non è serio. È ridicolo». Sta anche qui il vincolo, l’obbligazione verso la poesia di cui dicevo. Tanto più a fronte di vicende e pressioni storiche estremamente oscure, nel verso si vuole comunque preservare qualcosa di non compromesso, di vitale: passione, allegria, benevolenza, umorismo, arguzia, senso del paradosso, presenza di spirito.
E dire che la Lipska di suo possiede una visione delle cose non certo facile o serena; una visione, detto in una parola, positiva. Si tratti di ricordi della giovinezza, di situazioni quotidiane e ordinarie, o anche di argomenti più generali nelle poesia a tema ( Il coraggio, Innamoramento, La solitudine, Qualche parola sull’etica, Il Big Bang, I progetti per il futuro), molto spesso le constatazioni cadono dure, con sarcasmo o amarezza, a volte perfino con rabbia: «Non so nemmeno/ se è la storia che ha creato noi/ o se noi abbiamo creato la storia./ Se siamo solo l’eco/ di un cuore altrui». Anzi, l’impressione è che la voce poetica passeggi nel vuoto, aggrappandosi a questo o quello spunto, o rimpallandosi questa o quella domanda, come per ritardare a tempo indeterminato il momento della caduta.
Lo scetticismo non risparmia nemmeno la poesia: «A volte/ i versi sono come cani abbandonati/ che abbaiano alla poesia». Le parole arrivano da una strana distanza, che non è distacco ma messa in prospettiva della vita, come una misura di sicurezza per provare a guardare e comprendere senza scivolare nel buco nero della propria materia o, anche, come viene chiamato nella poesia omonima, nel «rebus» sordo e impassibile del mondo.
Questa distanza, anche dai baratri interiori, costituisce allora la condizione di vita, il respiro stesso della Lipska e della sua poesia. Il titolo del libro può ricordare un’asserzione di Gottfried Benn: «Per chi si sforza di dare espressione al proprio interno, l’arte non è qualcosa che attenga alle scienze umane ma qualcosa di fisico, come l’impronta digitale». Ecco, si può dire che nella Lipska l’idea della vita e della poesia come impronte digitali, cioè come punto d’intersezione tra individuo e specie, tra singolarità e proprietà comune, entri in cortocircuito con un sentimento d’inconsistenza e di evanescenza della realtà, dei volti individuali, dei rapporti interpersonali, delle percezioni, dei sentimenti, delle parole.
Per questo, come accade nella poesia che dà il titolo alla raccolta, il riferimento al web e al mondo virtuale (che del resto torna più volte nel libro) non si deve affatto ricondurre alla ritrosia di un’anziana signora verso qualcosa di nuovo. Al contrario, sembrerebbe la grande metafora a cui la Lipska era da sempre predestinata. Quale immagine infatti poteva porre in maggiore evidenza il conflitto e anzi l’equivoco tra la realtà e la sua simulazione, tra fisico e immateriale, tra la presenza irripetibile e l’anonimato? Di conseguenza il libro intero si può leggere in modo antifrastico, come avvertendo in sottotraccia al discorso poetico una specie di controcanto, quello della cattiva coscienza che quando prova ad afferrare il mondo stringe soltanto, come avrebbe detto il nostro Sereni, «una spalla d’aria». E così, nella poesia eponima della raccolta: «Poggiamo un dito/ sul lettore di impronte digitali/ e iniziamo ad amarci».
In fondo, è da sempre il rischio che corre ciascuno di noi: un amore senza corpo, un amore senza contatto. È anche per contravvenire a questa regola che la Lipska ha scritto le sue poesie.
L’universo virtuale Il riferimento al web pare una grande metafora che pone in evidenza l’equivoco tra fisico e immateriale, tra la realtà e la sua simulazione