Corriere della Sera - La Lettura
Le carrube nei capolavori di Masaccio
Epoche Che cosa unisce Marco Gastini al maestro del Rinascimento? A Verona la risposta: da una parte la tradizione, la scansione degli spazi; dall’altra la rottura dei perimetri e l’esplosione della materia. Benvenuti in una nuova storia dell’arte
Perché Marco Gastini ama Masaccio, da una parte un’opera rivoluzionaria dello spazio e della materia della pittura, dall’altra il fondamento di tanta parte dell’arte in Occidente? E che senso ha una fotografia dove vediamo insieme lo stesso Gastini, Gilberto Zorio e Giuseppe Spagnulo?
Per capire partiamo da un’opera chiave degli anni Ottanta, il decennio che Pier Giovanni Castagnoli indaga acutamente in questa mostra veronese ( Il respiro della pittura. Opere 1980-1990, fino al 31 marzo). L’opera si intitola: Le tensioni esistono, vengono generate e si rigenerano in pittura I (1981) e i materiali sono «tecniche miste, carrube e pergamena su tela». Bordi sollevati, spazio rettangolare ma sfrangiato, interrotto, e tracce scure, una scrittura con dentro il naturale, le carrube, e che insieme evoca uno spazio altro, capovolto; qui infatti il peso del dipinto si addensa in alto, all’opposto del cielo nei paesaggi. L’opera fissa un momento di trasformazione. Prima, infatti, Gastini ha sperimentato quella che Filiberto Menna ha battezzato «la linea analitica dell’arte moderna», una ricerca intesa come progettazione, controllo dello spazio, del colore, delle forme, forte attenzione al rapporto tra pittura e architettura, costruzione anche seriale delle immagini.
È verso lo scadere dei Settanta, e adesso negli Ottanta, che tutto cambia. Dice Gastini in una intervista a Bruno Corà (2005) a proposito di questo momento di trasformazione: «Dopo i tracciati, i reticoli nel muro, i plexiglas graffiati, i quadri con i punti e le linee e altro, dalla fine degli anni Settanta questa spazialità diventa più fisica e più violenta; fino al 1979 ho fatto dei lavori usando solo carboncino, madreperla, piombo; erano lavori bianchi, senza colore anche se per me contenevano tutti i colori; a un certo punto ho fatto tre, quattro quadri blu-completamente-blu... e per la prima volta hanno fatto apparizione le carrube poste sulla pittura, le pergamene dipinte che espandevano la pittura in altre direzioni; ho parlato di energia vitale, naturale, in contrapposizione all’energia del far pittura, ho usato i tronchi segati alla radice». Ed ecco come pone il rapporto con la pittura del passato Marco Gastini: «Una delle cose a cui penso mentre lavoro è che veniamo da una cultura della pittura e questa pittura è sempre presente... Masaccio è sempre presente quando lavoro».
Masaccio che scandisce gli spazi, che inquadra in prospettiva brunelleschiana le sue messe in scena, Masaccio coi suoi volumi... che rapporto avrà mai con un pezzo come questo del 1981, col denso blu che significa spirituale nella tradizione dell’arte contemporanea da Kandinsky a Klein, e con le carrube, segni scuri che evocano Twombly e la liberazione delle forme, e con la cornice di pergamena che si solleva e slabbra?
Anche in Paravento (1982) lo spazio si addensa e dissolve come una nuvola di «carbone, carrube, ferro e vetro su tela», come a dimostrare che lo spazio è senza limiti, ma insieme che lo spazio è durata. Gastini — osserva Castagnoli presentando una mostra a Oslo nel 1986 — «assume il tempo come struttura fondante della costruzione e della percezione della pittura». Ma come entra il tempo nelle opere dell’artista se non attraverso il riuso dei materiali, quelli del naturale e quelli frammentati, resti della civiltà contemporanea?
Veniamo alle opere in mostra, tutti pezzi di qualità altissima. Ecco Oriens (1983), dove il taglio orizzontale e la mensola sembrano evocare una natura morta mentre attorno i segni, lo spazio che si dilata, suggeriscono un paesaggio. E ancora Nella luce sopra i muri (1983-1985) ecco l’allusione al moto cosmico e insieme il dissolversi di forme, tracce di antiche scritture, in un vortice, come un Rauschenberg che da contemplazione dell’Assoluto si faccia denso di tensione drammatica. Delle altre opere ricordo Qui, là, altrove (1987) dove i materiali, carbone, vetro, ferro, legno, e naturalmente il colore, costruiscono una immagine di grande tensione; qui la scansione del fondo è quella dell’Abstract Expressionism, un Kline come riletto attraverso la cultura europea di Antoni Tàpies e Alberto Burri, ma poi ecco le lamine metalliche piegate e i legni e la rottura della cornice, anzi l’inesistenza della cornice, per cui l’opera si dilata nello spazio. Da una parte il calibro spaziale, l’orizzonte di Masaccio e della tradizione pittorica rinascimentale, dall’altra una violenza che vuol dire rifiuto dei modelli, che vuol dire liberazione.
Veniamo infine alla fotografia dei tre amici — Gilberto Zorio, Marco Gastini, Giuseppe Spagnulo —: perché insieme? Sono loro, Zorio, sul versante dell’Arte Povera ma con sottili tensioni alchemiche; Spagnulo, con l’epica delle sue grandiose sculture che evocano i menhir e le forme primarie ma anche la dissoluzione dell’antico; e Gastini... tutti insomma questi artisti disegnano una nuova storia, quella di un’arte che nasce in Italia e si impone come originale ricerca nel mondo. Questa mostra fa riflettere sulla rivoluzione dell’arte, sulle geniali idee dei nostri grandi creatori, tanto distanti dagli amari tempi della nostra nazione.