Corriere della Sera - La Lettura
Lo storytelling di Modì
Che sia un mercante, un’entreneuse alcolizzata, un amico pittore in ogni soggetto Modigliani allinea passato, presente e futuro
Amedeo Modigliani sembra una di quelle miniere d’oro che vivono nei racconti giovanili di zio Paperone, misteriose quanto inesauribili. Ai record delle aste ( Nu couché venne battuto da Christie’s New York nel 2015 per 170 milioni di dollari) si affianca il successo dei libri e dei film sull’artista e delle mostre in Italia e all’estero, allestite ormai a cadenza annuale.
Quella che si apre al Palazzo Ducale di Genova il 16 marzo, dal titolo, semplicemente, Modigliani, ci ripropone disegni, occhi vuoti, nudi distesi, sagome accovacciate, ragazzi dai capelli rossi e figure femminili sedute con le mani in grembo. Ritratti che molto probabilmente torneremo a divorare con la stessa avida curiosità della prima volta, spinti da una sorta di irretimento «modiglianesco». Ora, la leggenda dell’artista maledetto che dipinge ubriaco e in miseria non può bastare a spiegare una tale fascinazione collettiva e duratura. Vuoi perché negli ultimi decenni la critica ha in parte smontato questa mitologia di origine perlopiù mercantile (anche con mostre filologicamente colte e di successo, come quella sulle sculture allestita al Mart di Rovereto nel 2010), vuoi perché il «fenomeno Modigliani» è sempre più iconico, legato a dettagli che si riproducono in modo virale, a prescindere dalla biografia: i colli lunghi, gli occhi vuoti, la posa di uno dei ritratti di Jeanne Hébuterne con le fattezze dei Simpson che circola sul web.
Opere insomma che infondono una specie di familiarità trasversale, come aveva intuito il critico coevo Gustave Coquiot: «Amedeo ha dipinto le vergini ma anche i visi esangui, il dolore ma pure la vita ar- dente». Questa umanità che l’artista livornese ha impresso nelle teste simili a idoli pagani così come nei corpi allungati alla maniera rinascimentale, ha una lunga storia, pittorica e biografica.
E si potrebbe partire da una data, il 1906. In quell’anno, come in una immaginaria porta girevole dell’arte, Paul Cézanne moriva a Aix-en-Provence per le conseguenze di una polmonite contratta dipingendo en plein air, mentre a Parigi arrivava il livornese Modigliani, ventidue anni appena, fresco delle lezioni del tardomacchiaiolo Guglielmo Micheli. Allevato in
una famiglia della colta borghesia ebraica (scossa da alti e bassi finanziari però incline all’ironia e al cosmopolitismo), Amedeo è cresciuto ammirando le Madonne di Simone Martini o la Maestà senese di Duccio da Boninsegna, come pure i teleri di Tintoretto, visti a Venezia. Ma come innestare questa tradizione figurativa italiana nella rutilante avanguardia parigina? C’erano i prodromi dei Cubisti e dei Futuristi (Gino Severini gli proporrà di entrare nel movimento ma lui rifiuterà), i casi a sé come Picasso e Matisse e i tre giganti del Novecento, cioè Proust, Kafka e Joyce, erano ancora vivi. Modigliani è inquieto.
Da Fattori ha appreso a padroneggiare l’uso del colore e negli occhi ha il rigore della pittura senese del Trecento, così come la soluzione plastica del volto obliquo sul collo cilindrico che ha visto nelle sculture delle chiese napoletane. Inoltre «Dedo» conosce i propri limiti. Fisici, certo: il tifo del 1898 gli ha lasciato una lesione polmonare, cosa che mina la sua grande inclinazione, cioè la scultura, a causa delle polveri. E stilistici: i colori di Parigi «sono diversi da quelli italiani e io non riesco a farli cantare», confida all’amico Latourette. Distrugge un busto di ragazza perché «è un Picasso riuscito male». Ammira le avanguardie ma sente che non può e non deve rinunciare alla figura in nome dell’astrazione totale. Bisogna trovare il linguaggio giusto. Il codice.
E si torna alla porta girevole: nel 1907 si apre a Parigi la retrospettiva su Cézanne al Salon d’Automne, 56 tele che sconvolsero i più giovani. Il maestro di Aix aveva rivoluzionato la costruzione dello spazio: non solo sensazioni retiniche (come gli Impressionisti) ma una prospettiva inedita, basata sulle leggi fisiche piegate al sensibile. Esempio: nel ritratto di Gustave Geoffroy, oggi al d’Orsay, il tavolo con i libri è inclinato, come lo vedrebbe una persona in piedi. Cézanne dà nuovo senso alla figura, raccoglie l’eredità dei maestri rinascimentali e la inocula nella modernità. Il primo a cogliere il messaggio fu Picasso, che dipinse Les demoiselles d’Avignon nello stesso anno.
E Modigliani? Non immediatamente, ma quella lezione per lui fu cruciale ed è anche grazie a Cézanne che divenne un artista «veggente», per usare una felice definizione di Giorgio Cortenova. In mostra a Genova per esempio ci sono i ritratti di Moisé Kisling (1915) e di Chaim Soutine (1917): opere arrivate nella maturità, dopo la rinuncia alla scultura ma che dalla scultura traggono plasticità perfetta. E qui c’è dell’altro: c ’è conoscenza del soggetto, empatia, come se si stesse raccontando non solo il presente del volto ma anche il suo carattere e, dunque il destino. Il futuro di quegli uomini e di quelle donne che ci guardano dalla fissità delle orbite svuotate. Attraverso la «pennellata a matassa» cézanniana, il livornese fa scorgere il senso della profondità, alla maniera del pittore di Aix. Profondità che è psicologica, narrativa (morale?). Vede oltre il sensibile. Non a caso Modigliani si appassionò alla cultura egizia (Anna Achmatova scrisse che lui la trascinava a vedere le statuette custodite al Louvre) e non a caso nelle opere degli anni di poco precedenti la morte (avvenuta nel 1920) si sente l’eco della tradizione familiare recuperata. Le superstizioni per esempio, elemento mai bene approfondito ma che, come disse la figlia Jeanne, facevano parte del corredo culturale dei Modigliani.
Tutto si tiene insomma: la ieraticità della pittura italiana, l’uso sapiente del colore ottocentesco, la struttura dello spazio che «scava» nella storia. A Palazzo Ducale scorrono il bellissimo Grande nudo diste
so, la Ragazza bruna seduta e il Ritratto di Maria, tutti del 1918, ma anche il famoso Nudo accovacciato dell’anno prima. Che sia il dipinto di un mercante o di una
entreneuse alcolizzata o di un amico pittore, in ogni soggetto Modigliani allinea il passato il presente e il futuro sullo stesso piano pittorico. Questo andare oltre la figura per privilegiarne la narrazione è molto moderno, diremmo contemporaneo, nell’era dello storytelling. E, forse, Modigliani ci piace anche per questo: perché ogni ritratto è una storia che deve ancora accadere.
Ha sempre cercato di andare oltre il «sensibile». Per questo si appassionò al mondo egizio e nelle opere degli anni di poco precedenti la morte si sentiva l’eco di una tradizione familiare recuperata: le superstizioni per esempio, che facevano parte del suo corredo culturale