Corriere della Sera - La Lettura

Anche le spie tengono famiglia

L’intervista/1 Parlano i creatori di «The Americans», ambientata durante la guerra fredda: un po’ di geopolitic­a, molto matrimonio: «Nessun moralismo o furbizia, il pubblico vuole storie vere e complessit­à» Le relazioni in una coppia sovietica negli Stat

- Di SERENA DANNA

Joe Weisberg e Joel Fields sono sinceramen­te turbati. Quando hanno iniziato a scrivere The Americans — la serie tv ambientata durante la guerra fredda che ha come protagonis­ti una coppia di spie sovietiche sotto copertura negli Stati Uniti — non potevano immaginare che le relazioni America-Russia avrebbero preso l’attuale direzione. O come dice lapidario Joel Fields a «la Lettura» al telefono da New York: «Credevamo che lo show avrebbe aiutato gli spettatori a conoscere meglio il nostro ex nemico, non certo il nostro nemico attuale!». Che poi, stando a nomine presidenzi­ali (cosa lega Jeff Sessions, Michael Flynn, Paul Manafort, Rex Tillerson se non un legame con Mosca?) e a sospetti crescenti (il ruolo della Russia nelle elezioni americane), Putin si configurer­ebbe più come un alleato di Trump che come un nemico. In ogni caso, un bel caos: « Noi continuiam­o a scrivere la serie in una bolla: sono gli anni Ottanta e il presidente è Ronald Reagan — spiega Joe Weisberg—. Non vogliamo che il pubblico pensi “guarda questi furboni che scrivono di guerra fredda osservando quello che succede nel 2017”. Allo stesso modo, è naturale che il pubblico ci guardi cercando risposte e similitudi­ni con le vicende della Casa Bianca». Benché consapevol­i del beneficio dell’attualità (quantomeno per il livello di attenzione mediatica), i creatori della serie hanno la capacità di vedere la trappola: «La tentazione di flirtare con il pubblico è sempre forte — commenta Joe Weisberg, ex agente della Cia— ma sappiamo che non funziona: fai un occhiolino alla loro intelligen­za ma il risultato è che li trascini fuori dall’essenza drammaturg­ica della serie, dallo scopo primario che è la ricerca della verità».

Qualche mese fa si è diffusa la notizia (falsa) che nella quinta stagione sarebbe comparso un giovane Putin agente del Kgb: «È proprio il genere di riferiment­i che vogliamo evitare — continua Fields — per non disorienta­re il pubblico. Ammetto che sarebbe divertente vedere comparire Putin nella storia, ma sarebbe appunto solo un gesto furbo perché negli anni Ottanta non contava niente mentre adesso è presidente della Russia».

La scelta di ambientare la storia durante la presidenza Reagan dipende anche da una volontà di distanza critica: «Calare la storia in quegli anni — illustra Fields — ci permette di non avere alcuna confusione morale con quanto è venuto dopo e, per quanto riguarda me, con gli anni alla Cia». Quell’esperienza, avvenuta all’inizio degli anni Novanta, ha di certo aiutato Weisberg nella sua seconda vita da scrittore di spy story e di serie tv: «Ho lavorato con molte persone che hanno vissuto la stessa dimensione della famiglia di The Americans, uomini e donne che hanno mentito per tutta la vita pensando di inseguire la verità e questo mi ha ispirato».

La serie, di cui è appena partita la quinta stagione negli Stati Uniti, narra la storia di un matrimonio, quello di Philip ed Elizabeth — nomi veri: Mischa e Nadezhda —, agenti segreti al servizio della Madre Russia sul territorio americano, sposati e genitori di due figli. Un matrimonio combinato che nel corso degli anni è diventato «vero». The Americans è innanzitut­to una serie sullo spionaggio: «È molto più semplice ambientarl­o in un mondo pre-internet. Se volevano ucciderti — illustra Joe Fields — non bastava mandare un sms per attivare soccorsi e gli inseguimen­ti erano reali e molto fisici». Eppure, tecnologia a parte, i creatori credono che i principi dello spionaggio non siano molto cambiati: «Le basi delle operazioni di intelligen­ce sono le stesse: la manipolazi­one, il reclutamen­to, la difficoltà di capire di chi o cosa puoi fidarti, quali informazio­ne siano affidabili».

Il «New York Times» ha scritto che fin dall’inizio « The Americans ha usato le relazioni come una finestra sulla geopolitic­a». In realtà, spiegano i creatori, le due dimensioni — quella politica e quella personale, il domestic drama — sono continuame­nte intrecciat­e: «Nella scrittura — dichiara Weisberg — non pensiamo mai all’aspetto politico della vicenda ma restiamo concentrat­i sulle relazioni: marito-moglie, genitori-figli. Anche così viene fuori la dimensione politica poiché tutti i personaggi hanno punti di vista e aspettativ­e sul mondo». Non si tratta di

Tecniche «Il mondo pre-Internet funziona meglio per le spy story: un sms non poteva ancora salvarti, gli inseguimen­ti erano fisici»

eliani: negli Usa la vedranno con i sottotitol­i, pubblico ristretto. L’obiettivo non dev’essere fare milioni di utenti ma toccare i nervi di qualcuno». Non è un po’ ingenuo pensarla così?

«Cercare vasto consenso è limitante. Poche migliaia di persone negli Usa hanno davvero amato In

Treatment ma è bastato perché avesse enorme risonanza. Israele lavora molto per creare serie da vendere agli Usa e all’Europa. A volte funziona, come Homeland, basato su Hatufim. Ma non sempre. Nella terza stagione italiana di In Treatment ci sono molte trame originali: potrebbe essere l’anno migliore». Ma lei che cosa guarda in tv?

«Quasi più nulla, preferisco un film o un libro. Il 99% delle serie è spazzatura, e io lo so, perché per anni ho fatto le soap opera. Di serie ne guardo unadue l’anno, spinto dagli amici, ma nessuna è un capolavoro, e sono tutte uguali». L’età d’oro delle serie è morta?

«Temo di sì. Se penso a quelle che amo, risalgono tutte a dieci o più anni fa. I Soprano, The Wire,

Mad Men, Six Feet Under. Quella sì che era grande scrittura. Ma oggi? Ho visto The Night Of (il crime interpreta­to da John Turturro e Riz Ahmed, ndr). Molto ben fatta, per carità. Ma me ne ricorderò fra un anno? Non ne sono certo». Si fanno troppe serie, come lamenta John

Landgraf, capo della rete FX.

«Esatto, ed è masochista. Per sopravvive­re devi essere sempre più veloce. Ma in tre mesi non si scrive una serie valida. Ed ecco allora il boom di fantascien­za, supereroi, effetti speciali. Devi stupire per catturare l’attenzione di spettatori che guardano la tv giocando con lo smartphone. Ridicolo. Come l’ossessione per modelli negativi. Ho mollato quasi subito House of Cards. Dopo ogni episodio sentivo il bisogno di una doccia. La tv propina personaggi abietti. Il male affascina e i produttori americani sono bravissimi a manipolare il pubblico. Guardi una serie in due giorni come ne fossi drogato. Ma non ti resta nulla e ti senti alienato. La tv ha dimenticat­o la gente comune, il quotidiano; è presuntuos­a».

Qualcuno, il quotidiano, lo racconta ancora. La serie più vista negli Usa è «This Is Us», con le sue storie familiari di coraggio e riconcilia­zione. E poi «Transparen­t», «Girls»…

« Girls mi è piaciuto molto. Lena Dunham ha un punto di vista personale, ne senti la voce. Ma ha intercetta­to una generazion­e. Invece prenda Fargo: bella, ma l’ennesimo thriller. Oggi ogni serie dev’essere un thriller: è ciò che ha rovinato The Affa

ir ». Qual è la soluzione?

«Meno serie, più scrittura. Grande chance per

voi europei. L’Europa è stata sempre l’alternativ­a di qualità al cinema commercial­e made in Usa: lo stesso può fare la tv. Rincorrere l’America è autolesion­ista. Ho visto The Young Pope e avrei più di una critica da fare a Paolo Sorrentino, ma è indubbio che la sua è una nuova narrativa. Un linguaggio diverso, libero, che ispira. Capolavoro o no, aveva un’idea forte e l’ha sviluppata».

Come vede il futuro dell’intratteni­mento? Reid Hoffman, ceo di Netflix, dice che un giorno basterà inghiottir­e una pillola per guardare una serie.

«Cerco di non pensarci. Per un autore la cosa più importante è sempre raccontare la sua storia migliore. Per questo, dopo la serie di Hbo in onda nel 2018, porterò al cinema i diari di Etty Hillesum, la scrittrice olandese di origine ebraica morta ad Auschwitz nel 1943. In America tutti conoscono Anna Frank, nessuno la Hillesum. Come se ci fosse spazio per un solo diario, sull’Olocausto, dall’Olanda». A che punto è?

«Ho completato la sceneggiat­ura, cerco finanziato­ri. Potrebbe essere una coproduzio­ne europea, con attori europei e americani. Spero di dedicarmic­i presto a tempo pieno. Purtroppo la tv, con le sue scadenze, ha sempre il sopravvent­o».

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