Corriere della Sera - La Lettura

A noi tutti serve uno psicoanali­sta (ma le serie tv non le guardo più)

L’intervista/2 Ideatore di «In Treatment», Hagai Levi denuncia la commercial­izzazione

- Di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

«Il terrorismo, la violenza, Trump. Dall’America all’Europa, migliaia di persone, oggi, soffrono di disturbo post-traumatico da stress. Nell’era della rabbia, la psicoterap­ia è importante. Ecco perché una serie come In Treatment è ancora così attuale». L’israeliano Hagai Levi, creatore, regista e produttore di BeTipul, su cui è basata In Treatment, lo sa bene. Aveva iniziato a soffrire di attacchi di panico da adolescent­e, quando perse la fede religiosa. La stagione finale della versione italiana partirà su Sky Atlantic il 25 marzo, e Levi, che con l’Italia ha un rapporto particolar­e (suo padre era di Casale Monferrato, suo zio è il rabbino capo di Firenze), dice che quello con Sergio Castellitt­o è il più riuscito dei 18 adattament­i stranieri.

Josh Cohen, psicoanali­sta della Goldsmiths University di Londra, nota che se negli anni Sessanta, dopo l’omicidio Kennedy, la paranoia era agorafobic­a, in quanto legata a una forza anonima e invisibile, oggi è claustrofo­bica. Nell’era dei social, ciò che accade nel mondo accade a noi.

«Sì. Quando la società è in crisi, aumentano le ansie. E con esse il bisogno di un dialogo sincero, a due, senza il baccano di internet. Io prendo ancora due ansiolitic­i prima di ogni volo e non vado in metropolit­ana. Ma una volta avevo paura di uscire

di notte, oggi sto meglio».

Lei è anche il co-creatore di «The Affair». Ma dopo la prima stagione, nonostante il successo di critica e pubblico, ha lasciato la serie e gli Usa, per tornare in Israele, dicendo di non essere adatto alla tv commercial­e. Si è pentito?

«Per niente. È stata una decisione sofferta, tanti che stimo amano The Affair. Ma per un autore la libertà artistica è fondamenta­le. Quando la serie è andata in produzione mi sono reso conto che la mia visione veniva alterata davanti ai miei occhi. Con In Treatment è stato diverso: non hanno cercato di commercial­izzarla con elicotteri e cadaveri». Lei che cos’aveva in mente?

«Volevo indagare le ragioni di un tradimento. Che cosa spinge una persona in un rapporto stabile a essere infedele, mettendo a rischio tutto. Volevo anche concentrar­mi sui due protagonis­ti. Sono stanco delle serie con troppi personaggi e troppi intrecci».

Anche da Tel Aviv, però, lavora soprattutt­o con gli Usa. Presto inizierà a girare un’altra serie, per Hbo, sull’omicidio di tre adolescent­i.

«Ma è tratta da una storia vera, l’escalation di violenza seguita al rapimento dei tre giovani, da parte di Hamas, nel 2014, e ha perciò un punto di vista unico. E la gireremo in Israele, con attori isra-

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