Corriere della Sera - La Lettura
Divieto di morire
La potenza della tecnica, il consumismo sopravvissuto alla crisi: tutto porta a una rimozione della fine. Si vive e basta. Ma come? I dolori di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, dj Fabo investono le nostre coscienze. Alcuni autori hanno fatto di eutanasi
Chi di noi ha voglia di pensare alla propria morte, o a quella di chi gli è caro, specie se gode di buona salute e ne ritiene remota la possibilità? Nessuno. Un’istintiva, e provvidenziale, rimozione ci spinge a guardare ai giorni che scorrono come se fossero infiniti, pur sapendo che non lo sono affatto e che in qualsiasi momento una malattia o un incidente, e alla lunga la vecchiaia, ci obbligheranno a fare i conti con la nostra finitezza. All’apice del pensiero filosofico antico, tanto occidentale quanto orientale, ampio spazio è dedicato alla morte e in particolare al prepararsi a morire come forma di saggezza e di consapevolezza che dà significato alla vita stessa che si è vissuta. Al contrario per la modernità, appoggiata sui bastioni del potere tecnologico e del consumismo edonista, la morte è il rimosso per eccellenza, non solo a livello psicologico, ma anche sul piano delle pratiche sociali.
Morire sembra essere diventato inammissibile, quasi un reato, anche quando ci sarebbero le condizioni per desiderarlo: infermità e dolori insopportabili, degrado irreversibile del corpo e della mente, stadi terminali di patologie incurabili. Tale desiderio non appartiene, ovviamente, a chiunque si trovi in quelle condizioni, ma troppo spesso in Italia è diventato una supplica straziante, quanto inascolta- ta. Contro di essa sono stati impugnati i divieti di diverse agenzie di potere, Chiesa e Stato, forti di una scienza medica che sa rianimare e tenere in vita i corpi, prolungandone la durata biologica come insieme di funzioni organiche, ma che non distingue la vita della persona come capacità di relazionarsi a sé e agli altri, nella propria integrità e dignità. Di questo e di una legge che regoli il fine vita, ci si augura si discuta e si proceda il prossimo 13 marzo, data prevista per la sessione parlamentare dedicata al testamento biologico.
Nel frattempo le morti spettacolarizzate, saccheggiate dai media, giudicate e private dell’unico atteggiamento umano che meritano, ossia il rispetto, cioè quelle di Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro, Mario Monicelli, dj Fabo, e chissà quanti altri di cui si conosce meno, hanno colonizzato negli anni il nostro immaginario: ora sappiamo che potrebbe toccare a noi, diventare un involucro corporeo mantenuto vivente, nel quale non ci riconosciamo e del quale potremmo non avere nemmeno coscienza e percezione.
Tra il 2008 e il 2009, mentre si svolgeva la battaglia giuridica di Beppino Englaro per avere il diritto a porre fine all’esistenza della figlia Eluana, da diciassette anni tenuta in stato vegetativo tramite macchine, gli scrittori Antonio Moresco e Giulio Mozzi pubblicavano online il proprio testamento biologico, invitando altri a fare altrettanto. Nel 2009 usciva per Transeuropa Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi, di Giulio Mozzi (con una nota di Demetrio Paolin), una riflessione dai toni volutamente paradossali ed escatologici su quanto si era consumato sul corpo inerte di quella donna. L’interesse per vicende che, in modalità diverse e a distanza di anni, ripropongono il problema dimostra come la chiusura dottrinaria e la tentazione di onnipotenza tecnologica non forniscano una risposta né uno spazio adeguato di riflessione, e di scelta.
L’individuo moderno è lasciato solo davanti alla morte, sul confine fra ciò che si considera naturale e ciò che è artificiale, nel confronto impari con la ricerca biologica e medica che tale confine allarga e sposta di continuo. La rappresentazione del senso della morte è diventata tabù, almeno quanto nell’Ottocento lo era la rappresentazione del sesso.
Di quali narrazioni disponiamo, cosa ci dice la letteratura che con il senso della vita e della morte ha sempre avuto a che fare, e che da questa ultima ha tratto la propria definitiva ragione d’essere?
Nel 2014 lo scrittore Andrea Tarabbia pubblicava per i tipi di Manni La buona morte. Viaggio nell’eutanasia italiana, un testo a metà fra il reportage narrativo e l’inchiesta in cui al racconto degli ultimi quindici anni di semi-vita del nonno, colpito da ictus cerebrale e morto dopo una prolungata degenza ospedaliera in stato vegetativo, si alternano incontri con le persone e le associazioni, nonché l’analisi dei libri di bioetica, di storia e di teologia che hanno affrontato il problema. Tarab-
La scelta di Tolstoj «La morte di Ivan Il’ic» è un testo spartiacque, nota Andrea Tarabbia, perché vi si trovano due antropologie: quella antica che accetta il trapasso e ne fa un momento di possibile riconciliazione, e quella moderna che dipende dalla medicalizzazione fino a diventarne ostaggio
bia nota come La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj sia un testo spartiacque: quella del conte russo è una morte allo stesso tempo antica e moderna, perché vi si trovano compresenti due diverse antropologie, quella antica che accetta il trapasso e ne fa un momento di possibile riconciliazione con sé, con i propri cari e con il mondo, in una prospettiva umanistica ancora prima che cristiana, e quella moderna che dipende dalla medicalizzazione fino a diventarne ostaggio. È una morte vissuta in solitudine, privata di rituali di passaggio, in balia dei bollettini medici, del dolore fisico e della paura.
Una delle più precoci rappresentazioni di questo paradosso si trova nell’ultimo romanzo di Giovanni Arpino, Passo d’ad
dio (Einaudi, 1986), uscito quando l’autore sapeva di essere affetto dal carcinoma di cui sarebbe morto l’anno successivo. Giovanni Bertola, un anziano professore di matematica, conscio di essere colpito da una grave sclerosi cerebrale, affida a Carlo Meroni, suo allievo, il compito di aiutarlo a morire. Dentro la scatola che contiene gli scacchi coi quali giocano ogni domenica, si trova anche l’astuccio con la siringa predisposta affinché Carlo Meroni possa insufflare aria in una vena del maestro, provocandogli un’embolia letale. L’allievo però rimanda, non trova mai il coraggio per quel gesto, nel frattempo la malattia del professore degenera, viene ritrovato fuori casa, caduto a terra e privo di coscienza vigile. Paralizzato e incosciente, verrà aiutato a morire da Ginetta, la giovane donna nipote delle signore, perbene e bigotte, presso cui l’anziano professore era pensionante. Ginetta è la sola a cogliere le ultime parole del professore e a farsene carico, gli prepara un cocktail di barbiturici, restando con lui fino alla fine, mentre le zie e Carlo Meroni attendono in cucina, perfettamente e ipocritamente consapevoli di quanto stia accadendo. A poco varrà il tormento postumo di Carlo che pensa «al professore tra le braccia misericordiose di Ginetta mentre moriva». Una specie di pietà dipinta che vale mille parole.
Nel romanzo Antartide di Laura Pugno (minimum fax, 2011) è di nuovo un professore universitario, un neurologo, a cercare la morte dopo aver scoperto di avere un’afasia degenerativa. In realtà la morte lo coglie in treno, mentre sta cercando di raggiungere la Casa di Miriam, un luogo sperduto in mezzo ai boschi da lui finanziato insieme ad alcuni amici, per poter avere una buona morte. A scoprirlo sarà il figlio del professor Bechis, Matteo, insieme a un’ex compagna, Sonia, il cui padre, collega di Bechis, ha trovato la morte nel medesimo luogo. Sonia e Matteo sono scioccati. È Miriam, la misteriosa e coraggiosa direttrice della casa, a spiegarne la logica: «Tutto questo ti fa orrore. Ma prova a pensarci (...). Pensa cosa significa perdere totalmente il controllo del tuo corpo, sopportare cure dolorosissime, sapendo che saranno inutili. Pensa se potessi scegliere».
Scritti a distanza di quasi trent’anni l’uno dall’altro, i due romanzi condividono l’estrazione sociale dei protagonisti — borghesia colta: scegliere come morire è un lusso — e un orizzonte individualistico. Non c’è una comunità dotata di leggi e di pratiche che legittimino le scelte dei protagonisti, che perciò risultano tanto più estreme e violente. A facilitare la morte in entrambi i casi è una donna, una outsider rispetto alle convenzioni morali, una versione moderna della figura della strega, colei che traffica con i misteri dell’esistenza.
È lo schema che ritroviamo anche nel film di Alejandro Amenábar, Mare dentro (2004), tratto dal libro di Ramón Sampedro, Lettere dall’inferno, uscito nel 1996 e pubblicato in Italia da Mondadori. Sampedro, tetraplegico in seguito a un tuffo, per ventotto anni chiese e non ottenne il diritto all’eutanasia; morì nel 1998, grazie alla bevanda di cianuro di potassio che un’amica, Ramona Maneiro, gli preparò e gli diede da bere con una cannuccia. Accusata di omicidio, e poi prosciolta, Ramona Maneiro dichiarò di averlo fatto per amore.
Anche nel film del regista canadese Denys Arcand, Le invasioni barbariche, uscito nel 2003, la morte invocata da un appassionato e turbolento professore di storia, Remy, colpito da un tumore fulminante, avviene per il tramite di una ex amante, Nathalie, che gli procura e gli somministra in vena un bel po’ di eroina. All’alba di una notte in cui amici, figli, compagni ed ex mogli si sono ritrovati al suo capezzale, Remy muore di overdose.
Con Accabadora di Michela Murgia (Einaudi, 2009) e Vi perdono di Angela del Fabbro, pseudonimo di Mauro Covacich (Einaudi Stile libero, 2009), la focalizzazione si sposta dalla figura di chi desidera la morte a quella di chi aiuta a ottenerla: si tratta sempre di una donna. Murgia descrive una realtà arcaica, la Sardegna degli anni Cinquanta del secolo scorso, in cui la vecchia sarta, Tzia Bonaria, è anche depositaria di un sapere prezioso e oscuro, sa con quali mezzi far cessare le agonie interminabili, ed è rispettata dalla comunità in cui vive come dispensatrice di una morte pietosa. Il suo agire è riconosciuto, e richiesto, come un atto estremo di cura. Murgia evoca un contesto comunitario in qualche misura solidale rispetto alla sofferenza e alla morte anche se, o forse proprio perché, basato su leggi non scritte. Viceversa in Vi perdono, da cui nel 2013 Valeria Golino ha tratto il film Miele, la figura tutta contemporanea della dispensatrice di buona morte è più complicata e apre a ulteriori riflessioni: Maria è una trentaduenne che da tre anni ha deciso di aiutare i malati terminali o gli infermi gravi che glielo richiedono, lo fa convinta che sia giusto e necessario e si è costruita una rete di fiducia fra alcuni medici, anche se per procurarsi il farmaco letale deve volare in Messico. L’incontro con un settantenne che, pur in salute, le chiede aiuto per morire mette in crisi l’equilibrio di Maria che rifiuta di somministrargli il farmaco mortale, ma lo ritrova poi suicida per un volo dalla finestra. Il tema del memoir Al giardino ancora
non l’ho detto di Pia Pera (Ponte alle Grazie, 2016) non è propriamente l’eutanasia, quanto un’infinita serie di variazioni sul prepararsi a morire, con la possibilità contemplata dall’autrice, coincidente con l’io narrante colpita da sclerosi laterale amiotrofica, di rivolgersi a una clinica straniera per porre termine a una degenerazione fisica devastante. Pia Pera, che ci ha lasciato il 29 luglio 2016, era appassionata di giardini, e guardava al ciclo naturale di rigoglio e morte delle piante per accettare la propria fine, per elaborare una maniera armoniosa di pronunciare e dunque vivere la parola morte. L’ultimo romanzo di Don DeLillo, Zero K (Einaudi, 2016), catapulta il lettore in un contesto post-umano e distopico dove la morte è una scelta che si può fare da ammalati ma anche da sani, grazie alla convinzione tecnologica e ideologica che la vita riprenderà per mezzo della crio-conservazione all’interno di celle, dentro un bunker situato in un luogo non meglio specificato dell’Asia, allestito come il paesaggio del futuro da un gruppo di danarosi e invasati membri di una fondazione segreta. L’ossessiva riflessione di De Lillo sulla morte iniziata con Rumore bianco raggiunge qui il suo apice: quei corpi congelati, ipoteticamente predisposti a riprendere vita in un imponderabile futuro, spaventano più di qualsiasi semplice morte. Torna in mente la domanda rivolta a Federico Ruysch da un corpo imbalsamato nell’operetta morale di Giacomo Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie: «E il morire non ti pare na
turale?».
La visione di Arpino «Passo d’addio», uscito quando l’autore sapeva di essere affetto dal carcinoma che l’avrebbe ucciso, è una delle più precoci rappresentazioni del dramma contemporaneo: paralizzato e incosciente, il protagonista del romanzo verrà aiutato a morire da una giovane donna