Corriere della Sera - La Lettura

Ricomincio in Sud America

Vocazioni Mannarino è un cantautore che in Italia fa il tutto esaurito. Sulla via del successo aveva smesso di viaggiare. Ha deciso di ripartire sulle orme di Eduardo Galeano: «L’autenticit­à che ho trovato mi ispira e la restituisc­o al pubblico». Ha scatt

- Di STEFANO LANDI

Tutto è cominciato tra le righe di Eduardo Galeano. Le vene aperte dell’America Latina ha trasformat­o la storia musicale di Mannarino. Un percorso nato sui banchi di Antropolog­ia, a Roma. «Ho iniziato a viaggiare in Sud America perché ero attratto dalle culture degli indigeni. Un altro modo di vivere, più naturale, non rovinato dalle influenze del “perfettism­o” occidental­e». Prima Bolivia e Perù. Poi il viaggio che ha aggiunto tacche di vita vissuta al suo curriculum umano tra Colombia e Brasile: da Manaus a Rio de Janeiro. Zaino in spalla. «Sono partito da solo, perché avevo bisogno di ripulirmi dal successo», ricorda. Lui che ancora ragazzino era il cantautore più amato nei localini bui di una certa Roma.

Voce, chitarra, sudore. Bar della rabbia nel 2009 vince il premio Gaber ed è finalista al Tenco. Serena Dandini lo lancia in tv, Giovanni Floris gli affida la sigla di Ballarò. Nel maggio 2014, il suo terzo album Al monte lo parcheggia definitiva­mente ai piani alti delle classifich­e. «Ho sentito il bisogno di nasconderm­i dove non mi conosceva nessuno, facendo i conti con la solitudine. Ho capito che la società strutturat­a vale poco: ci siamo costruiti una vita sempre uguale a se stessa. Fotocopiam­o tragitti, gli stessi spostament­i. Lì vivi il caos della Natura. E ho ripreso fiato».

In sottofondo l’eco di trombe e sassofoni. Mannarino è a Roma: chiuso in uno studio dove sta costruendo lo show che partirà dalla sua città il 25 marzo con due date già sold out. Quasi 50 mila biglietti venduti e date raddoppiat­e a Milano, Bologna e Torino. Prende fiato, poi si reimmerge nelle acque paludose dell’isola di Marajo: «La notte andavo ai forrò, dove la gente si trovava per ballare. Non cercavo un suono ma lasciavo succedere le cose. Incontravo musicisti di strada. Siamo abituati a vivere di appuntamen­ti fissi. Il viaggio ti obbliga a seguire il flusso degli accadiment­i. E la musica è l’arte dell’incontro».

Un privilegio poter staccare la spina: anche se non sono tanti i musicisti moderni che decidono di nasconders­i lontano dal successo. «A 23 anni quando ho iniziato a suonare ho smesso di viaggiare. Erano gli anni della gavetta nei locali di Torrevecch­ia e del Pigneto, dovevo pagarmi l’affitto. A 29 anni i soldi del disco di debutto li ho spesi per ripartire per il Sud America. La ragazza con cui stavo ai tempi, che oggi è presidente di Change.org, mi ha insegnato a mettermi lo zaino sulle spalle».

Così Mannarino, a 37 anni, si sente un uomo migliore. «Il viaggio mi ha insegnato a inchiodare i piedi per terra. A scoprire la limpidezza dell’umanità più semplice. La sinistra intellettu­ale si perde in ragionamen­ti lontani dalla verità degli esseri umani. Una chiacchier­ata con un pescatore analfabeta mi ha insegnato di più di certi incontri con registi e filosofi». Stare lontani dal giro per qualcuno può sembrare snob, «può esserlo un certo tipo di viaggio: alla Mangia, prega, ama. Facendo selfie con gli indigeni. Spettacola­rizzando la propria solitudine. Io sono andato a cercare quello che mi aveva affascinat­o sui libri dell’università. Ho rispettato le mie origini di famiglia contadina. Mi sono mescolato a gente povera ma felice. In Paesi dove il più ricco del villaggio si può permettere un piatto di riso».

Lungo la strada, personaggi che a loro modo sono eroi. Quelli che hanno ispirato il nuovo disco, Apriti cielo: uscito a novembre, ha debuttato al numero 1: «La rot- ta nera che racconto in un brano è quella di Capurganà, al confine tra Colombia e Panama. I migranti arrivano dall’Africa nascosti sui mercantili sognando di sbarcare negli Stati Uniti. Sulla spiaggia ho conosciuto Alonso, che fa castelli di sabbia che sembrano opere d’arte. Un talento unico: aiuta i migranti a non farsi sfruttare dagli sciacalli. E insegna ai ragazzi della favela a costruire castelli. Uno di loro è stato assunto in un grande albergo per fare castelli a Dubai. Queste cose che mi fanno piangere di gioia: a questa gente non ho mai detto di essere un cantante famoso».

Tra poco Mannarino tornerà sul palco. Davanti al pienone dei palazzetti italiani. Un salto in lungo. «Suono per non tradire questa gente: sono le loro storie a salvare la sincerità che offro a chi mi viene a sentire. È come se fossero sul palco con me ed è grazie a loro che combatto per non trasformar­mi in un artista maledetto che si deprime per la bruttura della società», racconta.

Ha fotografat­o con il cellulare ogni momento del viaggio. Il nuovo disco è pieno di canzoni maturate in quello zaino. Arca di Noè è nata intorno a una melodia scartata dal Carnevale di Rio: «Sono stato nel Settore 13 del Sambodromo, quello della favela. Sta appena dopo l’arrivo, quindi non vedi la sfilata, ma solo l’orgasmo successivo. Gente felice e distrutta un attimo dopo la parata. Quel giorno scoprii che tutto il mondo può vivere di fantasia». Colori e scenografi­e del nuovo tour sono ispirate da questo viaggio: «Prima un deserto, poi le suggestion­i ma anche gli incubi che si traducono in festa dell’Amazzonia. Perché il viaggio è questo, non basta a salvarti. Non si scappa da quello che si ha in testa. Non basta andare lontano per fare i conti con se stessi».

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