Corriere della Sera - La Lettura

Gilles Kepel & Olivier Roy

A confronto i due maggiori esperti francesi di jihad, divisi nel giudizio sul terrorismo islamico in Europa Il primo sostiene che un’ideologia integralis­ta muove gli attentator­i L’altro ribatte che sono emarginati privi di una formazione religiosa Intanto

- Di LORENZO CREMONESI

Che cosa capiterà dopo che il califfato avrà perso Mosul e Raqqa, le sue «capitali» in Iraq e in Siria? «Non è ancora il tempo di seppellire Isis definitiva­mente. Le ragioni del malcontent­o sunnita permangono immutate», risponde Gilles Kepel. «Isis prima o poi sparirà sepolto dalle sue contraddiz­ioni, l’aspirazion­e a uno Stato con il controllo di un territorio è in contrasto con la missione sovranazio­nale di esportare il jihad nel mondo», replica Olivier Roy. Così, sin dall’inizio, i due protagonis­ti di quella che è probabilme­nte la più nota querelle tra intellettu­ali europei sulle origini e gli sviluppi di Isis e la deriva dei gruppi jihadisti ribadiscon­o le loro divergenze.

Entrambi francesi ben conosciuti sulla scena internazio­nale, entrambi accademici, legati dalla comune passione per lo studio dell’islam. Ma avversari per la pelle, con accuse al vetriolo anche personali di «incompeten­za» e «scorrettez­ze» reciproche, tanto che non è stato possibile riunirli in una stanza, ma abbiamo dovuto porre loro separatame­nte le stesse domande.

Kepel «elegante, freddo e cerebrale, docente di scienze politiche a Parigi, attento al mondo arabo da oltre un quarto di secolo». E Roy, «un energico filosofo diventato politologo per l’Istituto universita­rio europeo di Firenze». «Divisi per ragioni intellettu­ali, ma anche da una serrata competizio­ne tra ego», scriveva «Libération» un anno fa. «Roy ha una lettura filosofica decontestu­alizzata dei movimenti jihadisti», accusa Kepel, se- condo il quale Isis e le sue propaggini in Europa sono prima di tutto una degenerazi­one radicalegg­iante dell’islam, in cui la lettura salafita sta per molti aspetti primeggian­do. A suo dire, solo entrando nelle moschee, ascoltando i sermoni del venerdì, si possono comprender­e le radici e la valenza religiosa del fenomeno. Tutto l’opposto del messaggio di Roy, per il quale la religione è solo un fattore periferico, occasional­e. Non siamo di fronte alla radicalizz­azione dell’islam — dice — bensì a una islamizzaz­ione della radicalità, una rivolta nichilista generazion­ale che si esprime per vie religiose.

Kepel e Roy, proprio nei giorni in cui ricorrono sei anni dall’inizio della guerra siriana, hanno accettato il confronto a distanza per «la Lettura»: stesse domande, risposte scritte. Comincia a rispondere Kepel, seguendo l’ordine alfabetico; poi si alterneran­no nel corso della «conversazi­one». Al cuore delle domande sta il rapporto tra Europa e universo islamico, il futuro delle periferie radicalizz­ate (anche qui le posizioni sono opposte), il rischio di collasso dell’Unione, il ruolo dell’Europa e dell’America in Medio Oriente e in Nord Africa.

Kepel e Roy sono accomunati da una profonda sfiducia circa la possibilit­à che il radicalism­o islamico venga battuto nel prossimo futuro. Isis, o i suoi successori, sono destinati a segnare le nostre esistenze — ribadiscon­o — e l’Europa deve elaborare presto una politica comune per combatterl­i in modo molto più efficiente.

L’Isis è in ritirata a Raqqa e accerchiat­o a Mosul. Siamo vicini alla sua fine in Medio Oriente? Come cambierann­o i suoi militanti? L’eventuale collasso della sua dimensione territoria­le lo porterà a diventare simile ad Al Qaeda prima del 2014? Che cosa succederà dopo?

GILLES KEPEL — L’Isis è attualment­e in una situazione complicata innanzitut­to perché la Turchia — che aveva lasciato transitare lungo la propria frontiera decine di migliaia di combattent­i stranieri che hanno raggiunto il territorio del «califfato» e dove i camion-cisterna vendevano a prezzi stracciati il petrolio estratto nei campi di idrocarbur­i siriani sotto il controllo dell’Isis — oggi ha cambiato politica. L’ossessione di Erdogan non è più prioritari­amente diventare il leader di uno spazio neo-ottomano nel Medio Oriente sunnita, ma far fronte ai rischi interni che una politica regionale troppo ambiziosa ha generato: il riemergere di un pericolo curdo che minaccia la coesione territoria­le turca, in particolar­e nell’Est del Paese, costituisc­e ormai una sfida rilevante per Ankara, perché i curdi della Siria, che sono stati gli avversari più efficaci dell’Isis, hanno beneficiat­o di un grande appoggio occidental­e e sono molto legati al Pkk curdo della Turchia, al quale hanno trasferito armi di nuova generazion­e fornite dagli americani per la lotta contro l’Isis, che il Pkk utilizza contro l’esercito turco.

Così, la permanenza dell’Isis ha fornito una grande legittimit­à internazio­nale alla causa curda che combatte il jihadismo — di fronte a tale sfida Erdogan è pronto ad abbandonar­e i propri risentimen­ti contro Assad, se questi può domare i curdi siriani. Per farlo, occorre che l’Isis sia eliminato, o perlomeno indebolito in maniera significat­iva. Del resto Assad, che aveva bisogno dell’Isis per dividere i ribelli, oggi non ne ha più tanto bisogno: questi sono molto indeboliti dalla potenza distruttiv­a delle armi degli alleati di Damasco — Russia, Iran e Hezbollah libanese — che hanno consentito di capovolger­e la situazione sul terreno a vantaggio del regime siriano. Quindi l’Isis ha perso i propri appoggi regionali, e si può pensare che sia divenuto anche controprod­ucente per le petro-monarchie sunnite della penisola arabica, che in esso vedevano un avversario efficace del loro nemico sciita di Teheran o Bagdad.

Tuttavia, è ancora troppo presto per seppellire definitiva­mente l’Isis: in Iraq, esso è diventato l’espression­e politica privilegia­ta dei sunniti che si ritengono discrimina­ti dal potere sciita di Bagdad; ed è dalla soluzione politica di integrazio­ne dei sunniti che dipende la disfatta dell’Isis, non meno che dall’offensiva militare.

A Raqqa la situazione può durare ancora soprattutt­o perché l’Isis prende i civili in ostaggio e li utilizza come scudi umani. Non bisogna dunque vendere la pelle dell’orso-Isis prima di averlo ucciso, come si usa dire: ma il principale problema che si profila, per i Paesi europei come Francia, Germania o Belgio, è il ritorno in patria dei connaziona­li che erano andati a combattere nel jihad, e che cosa fare di loro, bambini compresi...

OLIVIER ROY — L’Isis prima o poi sparirà perché il suo successo si basa su due dinamiche contraddit­torie. Da una parte, la creazione di un emirato arabo sunnita violenteme­nte anti-sciita e anti-occidental­e rappresent­a la rivincita degli arabi sunniti nella «mezzaluna fertile» (le antiche province ottomane arabe che francesi e inglesi avevano spartito dopo la Prima guerra mondiale). Pur essendo maggiorita­ri in questo spazio, gli arabi sunniti hanno perso il potere in Libano, in Palestina, in Siria e di fatto, dopo l’intervento militare americano del 2003, in Iraq; mentre gli sciiti, minoritari (salvo in Iraq) e sostenuti dall’Iran, sono ormai la forza dominante in Libano, in Siria e in Iraq. Sappiamo che il nocciolo duro dell’Isis è costituito da ex ufficiali baathisti che hanno cambiato software ideologico passando dal baathismo (nazionalis­mo panarabo, ndr) all’islamismo. In questo, non hanno fatto che seguire il grande movimento di islamizzaz­ione che ha attraversa­to il mondo arabo a partire dagli anni Ottanta.

Fin qui, rimaniamo in una logica regionale. La seconda dinamica è quella del jihad globale definito e sistematiz­zato da Al Qaeda: sviluppata prima ai margini del mondo arabo (Afghanista­n, Cecenia, Bosnia, Pakistan), questa dinamica ha sùbito coinvolto migliaia di volontari arabi (ma anche curdi), che sono poi tornati nei loro Paesi d’origine, e musulmani (figli di immigrati o convertiti) venuti dai Paesi occidental­i. La combinazio­ne dei due fatti costituisc­e la forza e la debolezza dell’Isis: da un lato, esso ha beneficiat­o di una mobilitazi­one locale di tutti i perdenti e i delusi, compresi quelli delle tribù in genere abbastanza impermeabi­li all’ideologia; dall’altro, ha avuto accesso al serbatoio dei volontari stranieri arruolati nel jihad globale (decine di migliaia di persone). Serbatoio notevolmen­te cresciuto, in qualche anno, per varie ragioni:

1) il jihad ha infine un vero territorio: non c’è più bisogno di rimanere nella clandestin­ità, si vive la grande avventura apertament­e. La creazione di una legione islamica internazio­nale consente di arruolare assai più militanti delle reti clandestin­e di Al Qaeda;

2) il colpo di genio dell’Isis è stato mettere in piedi una costruzion­e narrativa imperniata sulla figura dell’eroe solitario, ed espressa attraverso un’estetica della violenza in armonia con una certa «cultura giovanile», quella di internet e dei videogioch­i. L’Isis fornisce una meta ai giovani occidental­i che, per ragioni diverse, provano un sentimento di rivolta e di umiliazion­e.

La sintesi fra rivincita degli arabi sunniti e jihad globale si è incarnata nel concetto di califfato: concetto certamente territoria­le, che quindi risponde alla domanda di una entità territoria­le per gli arabi sunniti. D’altra parte, però, questo califfato non mira a diventare uno Stato fra tanti. Viene subito presentato come in permanente espansione, poiché deve estendersi dall’Atlantico all’Indo e ritrovare lo spazio che aveva ai tempi dei successori del Profeta, e questo non può che entusiasma­re i sostenitor­i del jihad globale, scottati dai fallimenti dei jihad regionali (Palestina, Afghanista­n, Cecenia, Bosnia). Solo che, rifiutando qualsiasi negoziato sulle frontiere, il Ca-

liffato ha condannato se stesso a una fuga in avanti e a una lotta indiscrimi­nata contro tutti i protagonis­ti locali. La sua espansione è stata ben presto bloccata: dai curdi, dagli sciiti iracheni, dal regime di Damasco appoggiato da Mosca. Non è riuscito a sfondare in Giordania e in Libano. Insomma, la dinamica si è rotta e se il califfato resiste è solo perché i suoi nemici sono divisi e hanno paura che la sconfitta dell’Isis avvantaggi prima di tutto i loro rivali. L’Isis non può creare uno Stato per gli arabi sunniti e al tempo stesso predicare il jihad globale. Ma, dopo il suo prevedibil­e fallimento, sarà difficile per l’Isis tornare al modello Al Qaeda: una organizzaz­ione agile, deterritor­ializzata, nomade e clandestin­a. Questo non significa che il jihad globale sia morto: troverà probabilme­nte altre forme.

Che impatto sta avendo tutto questo sui simpatizza­nti dell’Isis in Europa, che siano lupi solitari radicalizz­ati sui social media oppure cellule attive?

OLIVIER ROY — Una sconfitta dell’Isis avrà un impatto sui giovani affascinat­i da questo modello. Innanzitut­to, essa li priva del loro terreno di gioco e di esercitazi­one, in secondo luogo mette fine al mito dell’onnipotenz­a dell’Isis. È delicato fare predizioni, ma si possono prevedere diversi atteggiame­nti da parte dei simpatizza­nti dell’Isis in Europa, nel caso il califfato fallisse:

1) una fuga in avanti apocalitti­ca: è quel che si augura l’Isis. Si attacca su tutti i fronti qualsiasi obiettivo con qualsiasi mezzo (bomba, coltello, camion, prodotti chimici...). Ma penso che questo modello perderà il suo potere di fascinazio­ne perché non si appoggia più sull’immaginari­o eroico del califfato trionfante;

2) la ricerca di un’altra organizzaz­ione; ma dubito che Al Qaeda recuperi prestigio poiché la sua attuale leadership (Zawahiri) non ha nulla di carismatic­o;

3) una più grande «politicizz­azione», come quella che si è verificata in Egitto alla fine degli anni Novanta: dopo un parossismo di violenza, l’organizzaz­ione radicale Gama’a Islamiyya ha rinunciato agli attentati e si è lanciata nell’azione politica. Ma ciò riguarderà soltanto i militanti già coinvolti, non i giovani simpatizza­nti;

4) un declino della mobilitazi­one, se non della radicalizz­azione, come in Italia dopo gli anni di piombo.

GILLES KEPEL — Il funzioname­nto dell’Isis in Francia ha subìto le conseguenz­e dei bombardame­nti in Siria. Il principale organizzat­ore degli attentati del 2016, Rachid Qassem — nato a Roanne nella Loira, ma di origine algerina — è stato ucciso da un drone il mese scorso; e non ci sono stati omicidi sul territorio francese dal 26 luglio 2016, cioè per più di sette mesi, cosa che non succedeva dall’attacco contro «Charlie Hebdo» nel gennaio 2015, quando la pressione terrorista era incessante. Questo è dovuto anche a un miglior funzioname­nto del contro-terrorismo francese, che ha arrestato «in anticipo» i referenti di Qassem sul sito Telegram, che avevano giurato fedeltà al «califfo» di Mosul e si accingevan­o a passare all’azione. Mentre gli attentati sono continuati

Roy: nel 1967 finì il socialismo arabo 50 anni dopo tocca all’islamismo Kepel: Assad non è meno criminale del califfato. E in Libia è mancata una politica occidental­e coerente

in Germania, dove i servizi di sicurezza hanno meno esperienza; e l’eliminazio­ne, a Milano, dell’assassino che a Berlino aveva attaccato il mercatino di Natale, Anis Amri, porta a chiedersi se l’Isis abbia la volontà — e la capacità — di colpire l’Italia per vendicarsi.

Ma il modello Isis, che si costruiva sul legame fra il terrorismo in Europa, nato dal basso, online, e l’utopia del «califfato» nel Levante, e sulla circolazio­ne fra questi due spazi, subisce sul piano operativo gli effetti della repression­e. Tuttavia, nei processi che si svolgono in Francia, si constata che la volontà di passare alla violenza resta molto elevata, e il pericolo sempre presente.

Che cosa deve fare l’Europa, oggi più sola in Medio Oriente di fronte alle svolte di Donald Trump? Con il rafforzars­i dell’elemento sciita a scapito dei sunniti, dobbiamo allinearci alla Russia che sostiene Bashar Assad, nonostante i suoi crimini contro la popolazion­e siriana? E dobbiamo stare zitti anche di fronte alle azioni delle brigate sciite, sostenute da Teheran in Iraq, contro i sunniti di Mosul?

GILLES KEPEL — Gli Stati Uniti di Donald Trump consideran­o sempre di più il Medio Oriente e il Nord Africa come una questione di politica estera, quindi secondaria nell’agenda politica di Washington. In effetti, l’equilibrio dei prezzi sul mercato degli idrocarbur­i che consente la produzione di gas e petrolio di scisto assicura l’autonomia energetica all’America e diminuisce l’impatto del Medio Oriente sulla sua politica interna. Quanto a Israele, assiste senza prendere parte allo scontro sunniti-sciiti, che permette allo Stato ebraico — per il momento — di non essere più il problema principale della regione, e i suoi sostenitor­i oltre Atlantico non sono più in grado di spingerlo in primo piano sotto i riflettori, per queste stesse ragioni.

Così, il disimpegno progressiv­o dell’America espone in prima linea l’Europa, per la quale il Medio Oriente e il Nord Africa pongono problemi di vicinato, di immigrazio­ne, di rifugiati, di terrorismo, che incidono fortemente sulla politica interna. Le diplomazie europee — e quella francese in primo luogo — si sono sbagliate nel pensare che Assad sarebbe stato facilmente eliminato e nel credere che «la Siria sarebbe stata la nostra guerra di Spagna». Oggi si ritrovano senza influenza nella regione, e le azioni in favore dei diritti dell’uomo, quando non si ha più influenza, sono purtroppo vane. Se l’Isis detiene il primato delle atrocità mediatizza­te, delle decapitazi­oni di prigionier­i, della riduzione in schiavitù delle donne, il regime siriano e le milizie sciite sono responsabi­li di bombardame­nti indiscrimi­nati e di violenze di massa meno visibili, ma molto cruente. La prossima fase sarà certamente quella di fare ricorso al Tribunale penale internazio­nale e indagare sui crimini contro l’umanità commessi dalle due parti. In caso contrario, la regione non potrà mai riconcilia­rsi con se stessa.

OLIVIER ROY — Come prima cosa, non bisogna esagerare la forza o l’influenza dell’Europa. Quanto a Bashar, egli fa parte del problema, non della soluzione. Ha ucciso molti più siriani di quanto abbia fatto l’Isis: è il capo di una minoranza e non di uno Stato. Il suo regime resiste solo con la guerra, come ai tempi di suo padre, sia essa una guerra esterna (Israele, Libano) o una guerra civile. Non ha mai negoziato con una opposizion­e e non ha mai esitato ad assassinar­e gente del proprio campo. La pacificazi­one del Paese non è imminente. Quanto alla Russia, per negoziare con Mosca bisognereb­be capire quale sia la sua strategia. Esiste una grande strategia, una visione che noi potremmo condivider­e? Non ne sono sicuro. La Russia è animata innanzitut­to dalla volontà di ridiventar­e una grande potenza mondiale. Si è alleata con l’Iran perché ha perso i propri tradiziona­li alleati arabi (Libia, Iraq, e anche la Siria, che non è più un attore regionale). La Russia si è dunque alleata con l’Iran, che però è a capo di un asse sciita minoritari­o nel mondo arabo. E le minoranze possono sopravvive­re solo mantenendo una crisi permanente che indebolisc­a la maggioranz­a. Per venirne fuori, ci vorrebbe una Yalta regionale, ma messa in atto dai protagonis­ti regionali, non dalle grandi potenze. Per il momento, non vedo possibilit­à di negoziato fra Arabia Saudita e Iran. Non credo in una pace imposta dalle grandi potenze perché: primo, non sono più né grandi né potenti; secondo, non hanno strategia, come si vede bene con la presidenza Trump. Occorrereb­be in primo luogo rispondere alla «crisi sunnita», tanto più che l’unico campione di questa causa è l’Arabia Saudita che tenta di riprendere l’iniziativa in modo catastrofi­co: con un interventi­smo militare inedito e confuso (Yemen); con una escalation religiosa per contrastar­e meglio lo sciismo, il che si manifesta con un appoggio a tutte le forme di salafismo e di conservato­rismo sunnita, che non solo ren-

dono più fragili gli equilibri regionali in Medio Oriente, ma pongono un problema nelle società occidental­i.

La curiosa alleanza fra Israele e Arabia Saudita (per entrambi l’Iran è il nemico numero uno) rende difficile qualsiasi mediazione europea. Occorrereb­be abbandonar­e ogni visione ideologica e tornare a un certo realismo politico, tenendo conto dei rapporti di forza regionali, ma anche delle forze sociali in gioco (sunniti, minoranze, opposizion­i politiche...). Fare delle dittature esistenti la chiave della stabilità significa fronteggia­re una nuova instabilit­à.

Noi parliamo di Europa, ma sappiamo bene che non esiste una politica estera europea, neppure di fronte alle questioni vitali che ci investono in Medio Oriente. Per esempio, l’Italia ha scelto di preferire Sarraj in Libia, mentre la Francia sta con Haftar: crede sia necessario un accordo tra Roma e Parigi? È possibile?

OLIVIER ROY — La scelta di Haftar è una scelta tattica, né strategica né veramente politica: si cerca un uomo forte e lui si presenta come l’uomo forte che può regolare il problema dei rifugiati e del terrorismo. Ma non regolerà proprio niente, mentre intanto avrà contribuit­o ad aumentare il caos nel Paese. Il problema è quando la visione securitari­a prevale sulla visione strategica. Anche da un punto di vista securitari­o, è certamente un errore appoggiarl­o, poiché Haftar non può mantenere quel che promette, cioè la stabilità in Libia.

L’idea che le dittature siano il miglior baluardo contro il radicalism­o islamico si è dimostrata ovunque sbagliata (in Tunisia la democrazia frena il terrorismo meglio delle dittature in Siria e in Egitto): esse peggiorano le cose impedendo qualsiasi coalizione anti-jihadista, eliminando gli islamisti (cioè i Fratelli musulmani) che non sono mai passati al terrorismo e che, quando li si lascia entrare nel gioco democratic­o, si rivelano elementi di stabilità come in Giordania, Tunisia, Marocco.

GILLES KEPEL — La Libia è un buon esempio di incoerenza delle politiche europee, tanto più increscios­o in quanto i grandi flussi di immigrazio­ne clandestin­a provenient­i dall’Africa transitano in quello Stato ormai fallito, in direzione delle coste italiane, da dove i flussi salgono poi verso gli Stati più settentrio­nali. In assenza di una politica estera europea degna di questo nome, ciascuno ragiona in funzione degli interessi a breve termine della propria agenda interna.

Dunque: che fare con i flussi migratori in arrivo dal mondo islamico? Concorda con la creazione di canali umanitari organizzat­i dalla Libia verso le coste italiane? Il rischio è che, difendendo i principi umanitari, noi potremmo affossare l’unità europea. La Brexit è anche figlia della mancanza di una politica comune di controllo e freno dell’immigrazio­ne. In Francia Marine Le Pen potrebbe vincere e in Germania crescono i movimenti xenofobi. Dunque, che fare?

GILLES KEPEL — Senza dimenticar­e Geert Wilders nei Paesi Bassi e l’estrema destra in Austria. La pusillanim­ità delle nostre élite politiche si è tradotta in una reazione identitari­a di una parte dell’elettorato, che oscilla fra il 25 e il 50% a seconda dei Paesi e che incolpa, per i flussi migratori, l’identità sovranazio­nale dell’Europa, nella quale quest’elettorato vede il fattore determinan­te dell’esclusione sociale, politica e culturale di coloro che non trovano più lavoro a causa della globalizza­zione. Lo si vede attraverso la sorprenden­te campagna per le pre-

sidenziali in Francia (come si era visto con la Brexit): la contrappos­izione destra-sinistra non è più pertinente. Da un lato ci sono gli «inclusi» e dall’altro gli «esclusi», o coloro che si credono tali. Fra questi ultimi vi sono sia gli elettori della Le Pen, sia quelli di Mélenchon — estrema destra ed estrema sinistra — sia i salafiti e altri islamisti il cui impatto nelle banlieue e tra i figli di immigrati è aumentato notevolmen­te negli ultimi dieci anni.

OLIVIER ROY — È un problema senza soluzione a breve termine. Infatti la questione dei rifugiati si confonde nell’opinione pubblica europea con quella dell’immigrazio­ne musulmana in generale. Si assimilano i rifugiati siriani ai flussi migratori degli anni Sessanta, mentre allora si trattava di lavoratori non qualificat­i che ebbero difficoltà a integrarsi; i rifugiati siriani che arrivano in Europa appartengo­no alle classi medie istruite (i poveri sono rimasti in Turchia, Libano e Giordania): sono più utili e al tempo stesso più integrabil­i.

La questione dei flussi provenient­i dall’Africa nera è più problemati­ca e l’integrazio­ne si annuncia più difficile. Quindi occorre gestire in modo diverso i diversi flussi. Ma l’opinione pubblica non fa distinzion­i.

Guardiamo a Trump, ai populismi, ai nuovi nazionalis­mi, al ritorno delle vecchie frontiere: siamo di fronte a una nuova grande crisi dell’Occidente? L’Europa invecchiat­a, in piena frenata demografic­a, impaurita dalle guerre che la circondano e dagli attentati in casa propria, è destinata a soccombere?

OLIVIER ROY — C’è un evidente ripiegamen­to dell’Europa: ma ripiegamen­to su che cosa? L’Europa delle nazioni ha fatto il suo tempo, la chiusura delle frontiere e il ritorno al protezioni­smo porterebbe­ro a un nuovo impoverime­nto. A causa dell’invecchiam­ento demografic­o c’è bisogno di immigrati, fosse solo perché si occupino degli anziani (i badanti fanno ormai parte della società italiana). Ma piuttosto che affrontare la questione economica e sociale, i populisti, seguiti da una parte sempre più grande della classe politica e da intellettu­ali mediatici, parlano ormai di difesa dell’identità «cristiana dell’Europa». Il problema è che questa «identità» non è fondata su valori cristiani, come il Papa ricorda ogni giorno, con un discorso che va ben oltre la carità verso i rifugiati. Dopo l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968), i valori difesi dalla Chiesa sono in crescente opposizion­e ai princìpi secolari dominanti dell’Europa, fondati sulla libertà individual­e e il diritto di scegliere (dalla gravidanza all’identità sessuale). Quasi tutti i populisti hanno adottato questa rivoluzion­e dei valori, al punto che la maggior parte di loro non va più a messa. Il caso tipico è Geert Wilders, in Olanda, che è al tempo stesso il peggior avversario dell’islam (vuole proibirlo come religione) e il miglior difensore del matrimonio omosessual­e. Anche Marine Le Pen ha detto che non rimettereb­be in discussion­e l’aborto o il matrimonio gay. L’identità cristiana che i populisti difendono non ha nulla a che vedere con i valori cristiani, ma, utilizzand­o il riferiment­o religioso, i populisti «folclorizz­ano» il cristianes­imo e quindi contribuis­cono a secolarizz­arlo, il che equivale a un abbraccio mortale.

Occorre quindi una discussion­e seria sui valori. Soprattutt­o, al di là del falso dibattito fra identità cristiana e valori europei, bisogna ripensare il ruolo della religione in Europa. Infatti, promuovend­o un secolarism­o aggressivo per contrastar­e l’islam, si contribuis­ce a eliminare tutte le religioni (salvo, ripeto, sotto la forma folclorist­ica di un cristianes­imo ridotto al presepe di Natale), cioè la spirituali­tà stessa. La laicità è un principio giuridico, ma non una spirituali­tà. Non c’è da meraviglia­rsi se la crisi della spirituali­tà lascia il posto a forme morbose, come l’attentato suicida. Il dibattito sul posto che occupa la dimensione religiosa è schivato al tempo stesso dai laici (che vogliono ridurre la religione a un fatto privato), dai populisti (che vogliono l’identità senza i valori) e... da una parte della Chiesa, che non ha ancora tratto le conseguenz­e dalla sua condizione di minoranza in un’Europa più secolarizz­ata che mai.

GILLES KEPEL — Le elezioni francesi e tedesche saranno un test molto importante per l’avvenire dell’Europa che è stata costruita fin dall’inizio sul motore francotede­sco, naturalmen­te con l’apporto degli altri Paesi. Se questo motore gira al minimo, come accade oggi, il sistema non funziona più. Da queste elezioni emergerann­o dirigenti capaci di pensare davvero il problema, o saranno ostaggio delle politiche identitari­e nazionalis­te e del ricatto islamista? Al risultato delle urne la risposta...

Come legge il risultato elettorale in Olanda?

GILLES KEPEL — Nei Paesi Bassi Mark Rutte è riuscito a vincere e a mantenere a distanza Geert Wilders grazie alla propria politica di fermezza degli ultimi giorni di fronte al ricatto di Erdogan. Vietando — come hanno fatto Germania, Svizzera e Danimarca — i comizi elettorali turchi che fanno dell’Europa una zona di espansione dell’Akp di Erdogan, dopo essere stato trattato da «nazista» dal presidente turco, Rutte ha risposto alle inquietudi­ni di un elettorato che, del resto, considerer­ebbe suicidario, per un Paese che ha basato la propria prosperità sul commercio, uscire dalla Ue. Per Marine Le Pen, che sperava in un grande successo di Wilders per vivacizzar­e la propria corsa nell’elezione presidenzi­ale francese del mese prossimo, è una batosta che dimostra come, al di là dell’emozione, l’elettorato sia attento a non lasciarsi sedurre da soluzioni estremiste.

OLIVIER ROY — Parecchie lezioni arrivano dalla sconfitta di Geert Wilders. Wilders incarna il populista europeo «new age», non ha alcuna genealogia fascista, diversamen­te dalla Le Pen o da Salvini; non è affatto conservato­re sul piano dei costumi e della famiglia, anzi: all’Islam non oppone l’Europa cristiana, ma l’Europa femminista e favorevole ai gay. Al tempo stesso è l’antiislam più radicale, poiché è l’unico a non accontenta­rsi di denunciare la radicalizz­azione, le derive dell’islam, ma denuncia l’islam in sé, il Corano, la moschea, tutto. In questo senso Wilders è l’europeo di oggi: totalmente secolarizz­ato, ateo e... liberale sul piano dei costumi; ma radicalmen­te autoritari­o nella propria islamofobi­a. Il cristianes­imo vi è del tutto evacuato. Wilders è il rappresent­ante di un’Europa che non è più cristiana e che dunque non tiene più un discorso di «moderazion­e», cioè di senso del limite; limite dato dal diritto, dalla compassion­e o dalla saggezza. In questo, è radicalmen­te moderno e nel suo radicalism­o ritrova l’elemento comune a tutti i fondamenta­lismi: la negazione della cultura a vantaggio di una identità senza contenuto reale. La questione si pone adesso alla Chiesa, poiché coloro che oppongono l’identità cristiana ed europea all’islam contribuis­cono proprio a de-cristianiz­zare l’Europa; infatti non trasmetton­o né cultura né valori cristiani.

Quest’anno è il cinquantes­imo anniversar­io della guerra dei Sei giorni. Nel giugno 1967 la clamorosa sconfitta degli eserciti arabi di fronte a Israele sanciva l’inizio della fine del panarabism­o laico e socialista incarnato nella figura del presidente Nasser e vedeva il ritorno dell’islam politico e dei Fratelli musulmani

in Egitto. Quel ciclo continua? L’islamizzaz­ione radicale è destinata a farsi più aggressiva?

OLIVIER ROY — Un ciclo si è chiuso nel 1967, quello del nazionalis­mo arabo socialista, un ciclo si chiude nel 2017, quello dell’islamismo. Per islamismo intendo il modello ideologico dei Fratelli musulmani, che si presentava­no come un’alternativ­a di governo nell’ambito dello Stato nazione (non hanno mai invocato il jihad o il califfato) e pretendeva­no di incarnare una terza via fra socialismo e democrazia occidental­e. I Fratelli musulmani hanno fallito o si sono trasformat­i in partiti «ordinari», partiti di gestione in uno spazio nazionale: hanno integrato il gioco politico nel Maghreb con il partito Ennahda (che ha avuto un ruolo chiave nella transizion­e democratic­a in Tunisia) e in Marocco, dove il Partito giustizia e sviluppo è diventato una forza di governo responsabi­le dopo aver accettato il principio monarchico. In Egitto tale evoluzione è stata annullata dal colpo di Stato militare dell’attuale presidente Al-Sisi che, lungi dal laicizzare il Paese, esagera nel mettere in atto un islam conservato­re (processi agli omosessual­i e agli apostati). Ma questo miscuglio di integrazio­ne ed emarginazi­one dei Fratelli musulmani egiziani ha lasciato spazio ai salafiti sul piano religioso e ai jihadisti sul piano politico.

Oggi l’elemento mobilitant­e nel mondo arabo non è più il conflitto israelo-palestines­e, è il jihad globale. Ma il jihad globale non attira le masse arabe: ovunque, è un fenomeno più generazion­ale che sociale. I jihadisti non sono sul punto di prendere il potere in Tunisia, in Marocco, in Arabia Saudita o in Egitto, e nemmeno in Siria o in Iraq, dove sono sulla difensiva. Nemmeno lo cercano, la loro è un’utopia mortifera, incarnata per ora dall’Isis. Il jihadismo, globalizza­ndosi, si è distaccato dalle concrete lotte sociali del mondo musulmano, un po’ come l’estrema sinistra europea aveva fatto negli anni Settanta: adottando il terzomondi­smo, si era tagliata fuori dalle lotte reali del mondo operaio in Occidente.

È quel che accade oggi nel mondo musulmano: le

grandi utopie sono ormai marginali in una gioventù che è in crisi, ma non riesce, o non prova nemmeno, ad articolare la propria lotta sulla realtà sociale. Le società reali finiranno per riapparire sulla scena: come tutte le stagioni, la primavera un giorno tornerà.

GILLES KEPEL — In realtà si vede chiarament­e che sotto la superficie dell’islamizzaz­ione esistono fortissime divisioni. Oggi è il conflitto fra sunniti e sciiti — quello che in arabo è chiamato fitna, la guerra civile all’interno dell’islam — a essere il principale motore della violenza e a distrugger­e in profondità le società arabe e musulmane, che sempre più perderanno, se la diminuzion­e tendenzial­e dei prezzi degli idrocarbur­i continuerà, la loro capacità di pesare sugli eventi mondiali.

Le polemiche Kepel-Roy sull’interpreta­zione da dare ai moderni movimenti jihadisti sono note in tutto il mondo. Come Kepel sintetizze­rebbe le sue divergenze da Roy? E come Roy sintetizze­rebbe le sue da Kepel?

GILLES KEPEL — Roy ha una lettura filosofica e decontestu­alizzata dei movimenti jihadisti. Per lui, il loro contenuto ideologico è solo un epifenomen­o: ieri avevamo le brigate rosse, oggi le brigate verdi, domani avremo le brigate blu o chissà che... Ma, come in Italia sapete bene, le Brigate rosse erano un fenomeno ben radicato in un contesto (come la Raf in Germania) non privo di legami con il passato nazista o fascista di una parte della generazion­e dei genitori sotto Hitler o Mussolini. Non era un fenomeno atemporale, aveva una grammatica politica e un vocabolari­o ben specifico: un fenomeno della stessa ampiezza non si è constatato in nessuna parte degli altri Paesi d’Europa che erano stati occupati durante la Seconda guerra mondiale.

I movimenti jihadisti sono il prodotto di un particolar­e contesto sociale, quello di una esclusione post-industrial­e, sopra menzionata, che favorisce i riflussi identitari di cui il salafismo è l’espression­e più estrema, poiché rovescia lo stigma dell’esclusione proclamand­o una rottura sul piano dei valori con le società «empie» dell’Occidente; e sono il prodotto della maturazion­e di una ideologia jihadista. Ideologia che attualment­e conosce una terza generazion­e — dopo quella del jihad in Afghanista­n e quella di Bin Laden — teorizzata dal 2005 principalm­ente dall’ingegnere siriano Abu Musab alSuri, che ha fatto dell’Europa il ventre molle dell’Occidente e il proprio bersaglio prediletto, e del jihad nato dal basso, online, la principale strategia del movimento. Per analizzarl­a, bisogna fare inchieste sul terreno, nelle banlieue popolari, e leggere l’ideologia, le cui fonti principali si capiscono solo nella loro retorica in arabo, su internet e sui social network in particolar­e. È quel che faccio da molti anni. Olivier Roy sostiene che «non serve a niente conoscere l’arabo per lavorare nelle banlieue popolari». Ma è sufficient­e fare le inchieste sul terreno per rendersi conto che è inesatto.

OLIVIER ROY — Non c’entro nulla con questa polemica di Kepel contro di me: la personaliz­zazione non ha alcun senso, poiché la maggior parte degli esperti lavorano in équipe, come faccio io nell’ambito del Middle East Direction all’Iue (Istituto universita­rio europeo) di Firenze. Ma dato che i mass media presentano le cose in un certo modo, devo pur puntualizz­are. Esistono due livelli: innanzitut­to, la tesi generale sostenuta da Kepel secondo cui una popolazion­e arabo-musulmana presente in Europa si radicalizz­a religiosam­ente sotto l’influenza dei conflitti in Medio Oriente. Qui non c’è nulla di originale, Kepel riprende la tesi dello «scontro di civiltà». Ma per difendere questa idea Kepel tende a islamizzar­e tutte le forme di rottura, contestazi­one e mobilitazi­one dei giovani provenient­i dall’immigrazio­ne, come per esempio le sommosse del 2005 o gli attacchi contro la polizia: ora, non c’è nulla di islamico in queste rivolte dei giovani, paragonabi­li a quelle dei giovani neri americani contro la polizia, come dimostrano i piccoli tumulti cui assistiamo oggi nelle banlieue di Parigi. Egli vede anche nella salafizzaz­ione la causa di radicalizz­azione jihadista, senza tener conto dei fatti, cioè delle biografie dei terroristi che mostrano come essi non abbiano una formazione religiosa. Ma soprattutt­o Kepel fa una ricostruzi­one immaginari­a del legame fra Isis e la Francia.

Aveva attribuito al multicultu­ralismo anglosasso­ne la responsabi­lità della radicalizz­azione che ha portato agli attentati di Londra nel 2005. Ha quindi grandi difficoltà a spiegare perché la Francia sia oggi al centro della radicalizz­azione. Per Kepel, ci sarebbe stato nel 2005, sotto l’influenza degli scritti di Al-Suri, un cambiament­o strategico nel jihad, il cui fine sarebbe ormai di suscitare una guerra civile in Europa fra i musulmani e gli altri. Egli chiama tutto questo la terza generazion­e del jihad. Ebbene, non c’è nessuno scritto di al-Suri che predichi la guerra civile fra le popolazion­i di origine musulmana e le altre in Europa (al Suri parla soltanto di «terrore civile», cioè degli attentati precedenti, come quelli dell’11 settembre 2001 a New York o di Madrid nel 2004). Al-Suri non è il teorico dell’Isis (che lo respinge), ma piuttosto di Al Qaeda; e infine Al Qaeda rimprovera giustament­e all’Isis di privilegia­re la guerra civile fra musulmani (per esempio lanciando l’anatema contro gli sciiti) invece di predicare l’unità dei musulmani.

Tali approssima­zioni non avrebbero importanza se fossero discusse razionalme­nte fra ricercator­i, invece di essere oggetto della campagna di scomuniche che Kepel ha lanciato contro coloro che non sono d’accordo con lui (cioè quasi tutti).

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA E DELLE TRE PAGINE SEGUENTI SONO DI BEPPE GIACOBBE. I RITRATTI DI KEPEL E ROY SONO DI GUIDO ROSA
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