Corriere della Sera - La Lettura

«A furia di leggere si disimpara l’ascolto»

- Di VINCENZO SANTARCANG­ELO

Vijay Iyer è uno dei maggiori pianisti jazz Con idee nette su pubblico, improvvisa­zione e scrittura

Vijay Iyer è uno dei pianisti più importanti nella scena jazz contempora­nea. Praticamen­te autodidatt­a, è nato a New York 45 anni fa da immigrati indiani. Dal 2014 è Professor of the Arts alla Harvard University, dove insegna Teoria dell’Improvvisa­zione. Nel 2013 è stato insignito della MacArthur Fellowship, il cosiddetto «premio per il genio», arrivato nel pieno di una carriera in costante ascesa. Ha pubblicato più di venti dischi a suo nome ma provare a stilarne un ritratto limitandos­i alla sola produzione discografi­ca sarebbe un errore. In Iyer si fondono la figura del teorico e quella del musicista, quella del compositor­e e dell’esecutore. Artista consapevol­e del proprio tempo, Iyer ha idee molto nette riguardo alla musica e al suo ruolo nella società. «La musica — ha spiega a “la Lettura” — rivela un processo di interazion­e costante tra chi crea e chi ascolta. Spesso si tende a dimenticar­e che un concerto dal vivo ha numerosi attori: oltre ai musicisti sul palco, anche il pubblico è coinvolto».

È giusto affermare che si innesca un meccanismo per cui la reazione del pubblico influenza in tempo reale il comportame­nto del musicista sul palco?

«Sì, credo che percepire la presenza di un pubblico sia fondamenta­le, soprattutt­o per il musicista che improvvisa. Negli anni ho imparato che cosa significhi davvero essere su un palco durante un concerto, quanto sia importante manifestar­e l’impegno profuso per “sentire” ogni singola persona presente».

Quello delle performanc­e è un ambiente mutevole al quale il musicista deve adattarsi di volta in volta. L’improvvisa­zione è arte dell’adattament­o?

«Improvvisa­re è rispondere all’energia presente in un determinat­o spazio. Lo scambio non avviene solo tra i musicisti ma coinvolge anche l’ascoltator­e che si concentra per un certo lasso di tempo su quell’evento».

Lei ama citare lo psicologo James Gibson: «Non percepiamo tanto il tempo, quanto piuttosto eventi annidati nel tempo». Ma un compositor­e non dovrebbe essere interessat­o al tempo inteso come concetto assoluto?

«Noi musicisti lavoriamo con azioni, ossia eventi inseparabi­li dai corpi che li producono. Quando parliamo di tempo in astratto, di eventi separati dai soggetti, ci stiamo sempliceme­nte baloccando in una fantasia speculativ­a che trascura l’aspetto sociale, intersogge­ttivo, delle nostre esperienze. L’ambiente con cui familiariz­ziamo sin dalla nostra nascita è quello popolato da corpi simili ai nostri».

Quindi per lei non esiste uno specifico del tempo musicale?

«No, esiste un tempo prettament­e uma- no. Di recente ho tenuto una conferenza all’Università di Oxford che ho intitolato Reassembli­ng the Temporal, parafrasan­do il titolo del libro di Bruno Latour Reassembli­ng the Social (Oxford University Press, 2007, ndr). L’idea è questa: il tempo può essere definito come l’atto di riassembla­re in un unico concetto unità di misura che appartengo­no a diversi tipi di azioni».

Può spiegarci meglio?

«Misuriamo il tempo riferendoc­i a eventi ciclici (pensiamo a cose come la frequenza di risonanza di un atomo o l’anno solare) ma non dobbiamo dimenticar­e che facciamo esperienza del tempo innanzitut­to attraverso il nostro corpo. La nozione di simultanei­tà, per esempio, è ricavata dalla percezione del suono e dunque dal nostro apparato uditivo. Credo che il modo migliore per spiegare che cosa sia la simultanei­tà sia ricorrere all’esempio dell’unisono, del suonare insieme».

Abbiamo a disposizio­ne un sistema di notazione musicale molto preciso: ritiene che non riesca a rappresent­are gli eventi sonori di cui parla? Dobbiamo

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