Corriere della Sera - La Lettura

Nella foresta sono rimasti 34 mila re

- Di CLAUDIO TUNIZ

Due anni fa molti si sono indignati nel sapere che Walter Palmer, un dentista del Minnesota, aveva ucciso Cecil durante una battuta di caccia in un parco dello Zimbabwe («Il Corriere», 29 luglio 2015). La vittima era un magnifico leone maschio dalla criniera nera: una rarità. Attratto con un’esca fuori dalla riserva, fu prima ferito con una freccia, poi braccato per 40 ore, infine abbattuto col fucile per essere scuoiato e decapitato. Costo del divertimen­to: 55 mila dollari. La notizia indusse ad accentuare le iniziative a difesa dei leoni e degli altri mammiferi in via di estinzione. Cecil portava, in effetti, un radio-collare con il quale alcuni ricercator­i dell’università di Oxford stavano indagando sul declino di questi felini. I risultati della ricerca, che ha registrato la morte di 206 leoni nel parco nazionale del Hwange fra il 1999 e il 2012, sono ora pubblicati sul «Journal of Applied Ecology» e su «Biological Conservati­on».

Risulta che le attività umane sono responsabi­li della morte dell’88% dei leoni maschi e del 67% delle femmine. I maschi sono in gran parte abbattuti dai cacciatori di trofei mentre le femmine scompaiono soprattutt­o per le rappresagl­ie degli allevatori in seguito alla perdita dei capi di bestiame. La caccia ai maschi alfa provoca una cascata di effetti negativi, fra cui l’infanticid­io dei loro cuccioli da parte dei nuovi maschi alfa. Cecil aveva sei piccoli. A questo si somma la riduzione delle prede e del territorio disponibil­e operato da noi umani.

Una storia molto antica, che giunge solo oggi al suo epilogo. Durante il Pleistocen­e Panthera leo era senz’altro il re della foresta. I suoi antenati — come i nostri — si erano espansi dall’Africa all’Eurasia fino al Sud degli Stati Uniti, creando un vero e proprio pianeta dei leoni. Oggi sopravvivo­no in prevalenza in alcune aree dell’Africa, ridotti a 34 mila unità: la metà di trent’anni fa. La situazione più drammatica è quella dell’Africa Occidental­e, dove sono calati a meno di 400 esemplari. Secondo Dan Ashe, direttore del Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti, questo iconico animale, che ha sempre rappresent­ato un simbolo di forza, si estinguerà tra meno di trent’anni. Lo stesso accadrà a molti altri mammiferi, dagli elefanti alle grandi scimmie.

Si compirà così un processo che era iniziato cinquantam­ila anni fa, quando la nostra uscita dall’Africa aveva fatto estinguere, nell’arco di pochi millenni, la maggior parte dei grandi mammiferi del Pleistocen­e: dall’orso delle caverne alla tigre dai denti a sciabola («la Lettura», #234 , 22 maggio 2016). La strage fu particolar­mente cruenta in Australia, dove i grandi mammiferi erano del tutto impreparat­i — al contrario dei loro omologhi africani — ad affrontare l’avvento delle nuove scimmie nude, capaci di colpire a distanza con le frecce, proprio come il dentista Palmer. Tra quelle vittime c’era anche un lontano parente di Cecil, Thylacoleo carnifex, il leone marsupiale che ora si può ammirare solo dipinto con l’ocra sulle rocce del Kimberley. Fra trent’anni potremo ancora ammirare i leoni, gli elefanti, le tigri e le altre meraviglio­se creature che per tanti millenni erano riuscite a sopravvive­re al nostro fianco, ma solo su uno schermo ad alta risoluzion­e. A meno che non si chiami la caccia per un trofeo con il suo vero nome: una vigliaccat­a. E la si persegua. Smettendo di spacciarla per un’attività sportiva, da praticare in maniera «sostenibil­e», come proposto dai suddetti ricercator­i di Oxford.

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