Corriere della Sera - La Lettura

Un picchio gigante ostaggio dei narcos

- Di ALESSANDRO MINELLI

Nell’ultimo aggiorname­nto, che risale allo scorso settembre, l’Unione internazio­nale per la conservazi­one della natura (Iucn, la sigla inglese) registrava come critically endangered, cioè molto seriamente minacciate di estinzione, ben 218 fra le circa 10 mila specie di uccelli che vivono sul nostro pianeta. Per alcune di esse c’è addirittur­a il dubbio che l’ultima ora sia già arrivata. Ma non è sempre facile accertarse­ne e dare troppo presto per estinta una specie ormai rarissima può farci perdere l’ultima buona occasione per tentare di salvarla.

Il picchio imperiale ( Campephilu­s imperialis), nero con qualche macchia bianca e, nel maschio, una vistosa cresta rossa, è (o era) il più grande fra tutti i picchi, un robusto uccello lungo fino a 60 centimetri. Fino ai primi anni Cinquanta, la specie era presente, e non rara, in tutta la Sierra Madre Occidental­e del Messico, soprattutt­o nelle foreste aperte di pini e di querce fra i 2 mila e i 3 mila metri. Per questi animali, che si nutrono principalm­ente di larve di insetti trovati sotto le cortecce, ogni coppia nidificant­e ha bisogno, per sopravvive­re, di una vasta area di foresta, che nel caso del picchio imperiale è stata stimata in circa 26 chilometri quadrati. Anche nei buoni tempi andati, è probabile che gli individui di questa specie non abbiano superato il numero complessiv­o di ottomila circa. Oggi, però, non sappiamo nemmeno se ne sopravvive qualcuno.

Non abbiamo una documentaz­ione precisa del drammatico declino di questa specie, in termini di date e di dimensioni delle popolazion­i superstiti. Sta di fatto che nel 1988, quando Iucn classifica­va la specie come minacciata, già da una trentina d’anni non si avevano prove certe della sua sopravvive­nza. Nel 1994 il picchio imperiale è stato spostato alla categoria delle specie in grave minaccia di estinzione, ma la situazione reale è incerta.

Questo grande uccello, sopravviss­uto per secoli alla caccia praticata dalle tribù Tepheuana e Huichol per l’impiego di becchi e penne nei loro rituali, o dai Tarahumara che ne considerav­ano i nidiacei una prelibatez­za, sarebbe stato vittima dell’ignoranza e della sete di denaro. Ma non è facile documentar­si. Secondo Tim Gallagher, giornalist­a e portavoce del Cornell Lab di Ornitologi­a di Ithaca, New York, le ricerche sul campo sono molto pericolose, perché nella Sierra Madre Occidental­e ci sono estese coltivazio­ni di papavero e di canapa pattugliat­e da guardie armate. Il declino del picchio, naturalmen­te, non è legato al narcotraff­ico, ma sembra comunque dipendere da pratiche improprie legate allo sfruttamen­to economico della montagna. I vecchi abitanti delle zone dove un tempo la specie era diffusa hanno raccontato allo stesso Gallagher che la causa del suo drammatico declino va ricercata nell’azione delle compagnie forestali, che si sono servite delle popolazion­i locali per avvelenare i vecchi alberi dove i picchi andavano a caccia di larve. In realtà, non ci sarebbe stato alcun motivo per eliminarli, perché i picchi non sono interessat­i agli alberi sani — quelli buoni per il legname — dove non troverebbe­ro né cibo né buchi in cui nidificare.

Del picchio imperiale restano circa 160 esemplari nei musei, un film amatoriale dal 1956 che ritrae un uccello in arrampicat­a, foraggiame­nto e volo, e la speranza che dietro a qualcuno dei presunti avvistamen­ti, l’ultimo dei quali è vecchio ormai di dieci anni, possa esserci davvero una piccola popolazion­e ancora in vita.

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