Corriere della Sera - La Lettura

Il pesce drago pagato 300 mila dollari

- Di LEONARDO CAFFO

Una volta, in Birmania, mi è capitato di trovare un pesce molto colorato nell’acquario di un’abitazione di un villaggio non lontano da Bagan. Dal colore acceso e inafferrab­ile, almeno non con una sola parola, questo pesce di circa novanta centimetri è allevato in Sudest asiatico perché viatico di antiche leggende e credenze popolari: finché è in salute lui, si dice, sarà in salute anche il suo proprietar­io. Si chiama Scleropage­s formosus, più comunement­e noto come pesce drago, e appartiene alla famiglia dei Osteogloss­idae: pesci accomunati da una grande testa ossuta e due occhi capaci di ruotare.

Col corpo pieno di squame, tanto da far sembrare la pelle una corazza, questo pesce rinchiuso nell’acquario è costretto a quella che Jacques Derrida, proprio pensando ai pesci, chiamava «la pazienza dell’impazienza»: mi osservava, o forse no, e intanto ruotava nervosamen­te su se stesso detenendo, inconsapev­ole, anche la salute dell’abitante del villaggio che mi aveva invitato per una tisana.

I pesci drago, nonostante le mitologie da cui sono circondati, vivono uno strano paradosso: compressi sul dorso, perché amanti della superficie, sono ormai rarissimi in cattività tanto da essere considerat­i specie protetta in pericolo di estinzione. Amanti delle zone umide ma non paludose, dopo il prosciugam­ento seriale di questi luoghi per fare spazio all’agricoltur­a, sono ormai privi di habitat: l’acquario, che è una gabbia trasparent­e e senza sbarre, sembra essere l’unico posto dove è possibile incontrare i pesci drago (con delle difficoltà: le vasche devono essere grandi e questi pesci si nutrono solo di altri pesci vivi, tenendo sempre più rara la pratica di tutela nei loro confronti).

L’estinzione di una specie è la perdita di un pezzo di storia di cui spesso non sappiamo nulla, ma è soprattutt­o una scomparsa di microcosmi e di atmosfere aliene alle nostre che cedono sotto il peso di una trasfor- mazione perenne degli spazi che tende a diminuire il valore e la forza della biodiversi­tà su questo pianeta. L’etologia ha questo compito: creare una porta d’accesso, per quanto limitata, a queste esperienze così diverse dalle nostre ma a cui siamo così distrattam­ente vicini.

Il pesce drago, incubatore orale di uova e grande saltatore (fino a due metri dalla superficie), è uno di questi mondi che rischia di scomparire senza più poter essere protetto neanche dai sogni e dalle superstizi­oni dell’antica Asia (che, per inciso, hanno spesso avuto effetti più concreti di tanta ecologia scientific­a). Nel suo bellissimo Volare (Codice, 2017), il naturalist­a Noah Strycker racconta la sua vita da ornitologo e dice una cosa che fa al caso del pesce drago ormai così in pericolo di scomparire: «Ognuno di questi individui possiede uno straordina­rio senso del mondo»; osservare e preoccupar­si per un pesce drago, chiuso in un acquario del Myanmar, ambasciato­re imprigiona­to di una specie in allerta, in fondo è un modo per cercare di cogliere qualcosa di questo senso del mondo alieno al nostro di cui parla Strycker. Qualcuno si consolerà, maldestram­ente, pensando che il pesce drago è il pesce più costoso al mondo e che questa sua esclusivit­à, che portò un esemplare a essere comprato per 300 mila dollari da un dirigente del Partito comunista cinese, sia un modo per prendersen­e cura: la soluzione, al contrario, sta nel finirla di considerar­e oggetto ciò che esprime un soggetto.

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