Corriere della Sera - La Lettura
Tante, diverse, bifronti Le città che fanno (ricca) l’Italia
Passato e futuro di Torino, Milano, Venezia; e poi Parma, Prato, Matera, Napoli... Un «Rapporto» rilancia le potenzialità di un patrimonio nazionale
La storia e il nostro territorio hanno forgiato identità urbane in grado di interpretare la globalizzazione in un modo tutto loro
Come ripensare dal punto di vista teorico, politico e morale la distinzione tra cose da fare e cose da non fare da parte dello Stato, tra agenda e non-agenda secondo la venerabile espressione di Bentham? Alla vigilia della grande crisi del 1929 Keynes poneva in tali termini il problema della riformulazione del liberalismo e, insieme, la possibilità d’uscita dalla sua crisi. E passaggio preliminare in tale direzione gli appariva il ripristino della distinzione tra quel che gli economisti avevano davvero detto e ciò che invece era frutto di semplice propaganda.
Basta sostituire allo Stato l’organismo cittadino, e a quel che lo Stato deve fare quel che invece esso potrebbe essere (ancora) in grado di fare, per accorgersi che la domanda e l’approccio di Keynes hanno senso ancora oggi, come risulta dal Secondo Rapporto sulle città, appunto intitolato Le agende urbane delle città italiane, elaborato dal Centro nazionale di studi per le politiche urbane e appena stampato da il Mulino.
Da tempo gli storici hanno smesso di definire che cosa sia una città, così come i geografi e i sociologi di individuare i suoi limiti e l’estensione delle sue funzioni. «Una città è una città»: con tale truismo Roberto Lopez più di mezzo secolo fa rinunciava al tentativo di una risposta onnicomprensiva alla questione, perché il concetto di città muterebbe da tempo a tempo e da Paese a Paese. Al contrario, attraverso le epoche e le culture non muterebbe affatto, o muterebbe di poco, il grado di coscienza dell’esistenza della città da parte dei contemporanei. Così, soggiungeva Marino Berengo, il confronto tra lo sviluppo e la funzione di organismi cittadini tra loro differenti si rivelerebbe molto più produttivo della ricerca di una formulazione univoca e perciò extrastorica del fatto urbano.
Vecchie storie, si dirà, se non fosse che ogni città è anzitutto un dispositivo per la produzione e riproduzione della memoria, come proprio il Rapporto in questione finisce con il ribadire: una memoria che, traducendosi in comportamenti collettivi, diventa la base, tra l’altro, di ogni decisione economica, agendo come quello che Pierre Bourdieu chiamava un habitus, una struttura in grado di produrre un sistema di disposizioni durevoli, un insieme di pratiche e rappresentazioni oggettiva- mente regolate ma prive di coscienza e controllo delle operazioni implicate. Il che poi è la vera ragione della difficoltà, denunciata da Saskia Sassen, di afferrare i circuiti invisibili dal punto di vista topografico da cui ogni città è oggi attraversata, di fare cioè i conti con la città materiale e il suo funzionamento come prodotti di dinamiche anche di natura digitale.
L’Italia che emerge dal Rapporto è ancora l’Italia che gli storici conoscono da tempo, quella di Carlo Cattaneo e Fernand Braudel: l’Italia che trova nelle città il «principio ideale» delle proprie storie (al plurale), e che proprio nel grande numero e nella vivacità delle sue culture urbane ha incontrato, a paragone degli altri Paesi europei, l’ostacolo maggiore nel proprio processo di unificazione nazionale. È ancora l’Italia descritta, in tempi più recenti, da Maurice Aymard: quella che nel mezzo millennio che va dal Tre-Quattrocento fino alla fine dell’Ottocento ha attraversato la più lunga «fase d’indecisione» economica mai conosciuta da un Paese occidentale, contrassegnata da una transizione dal feudalesimo al capitalismo svoltasi al rovescio rispetto al classico (sotto il profilo storiografico) modello inglese. Tutte caratteristiche risultate per lo più negative al tempo degli Stati-nazione ma oggi rimesse in gioco dalla globalizzazione fino al punto da poter cambiar di segno, tramutandosi invece in vantaggi.
Le puntuali analisi di cui il Rapporto si compone riescono particolarmente utili proprio all’orizzonte di tale potenziale ribaltamento, di tale delicata ma sistematica tensione tra la logica territoriale della modernità e quella che ai giorni nostri va nascendo. Nell’insieme, tutte le città prese in esame risultano ambigue, hanno un doppio volto come l’aveva Genova quando ancora nel Cinquecento Giano era il suo simbolo, anche se ognuna di esse declina oggi a suo modo la propria ambiguità. In altri termini: tutte risultano irriducibili a un’unica narrazione (secondo il linguaggio attuale di quella che Keynes chiamava propaganda), a segno appunto della presenza al loro interno di una vera e propria composita memoria del territorio, l’unica che al riguardo conti, e che a farvi caso nessun cambio del regime di governo politico riesce ad alterare, limitandosi invece ad articolarla.
Così Torino risulta allo stesso tempo colpita dagli effetti della globalizzazione