Corriere della Sera - La Lettura
Dante profeta religioso e politico Il ritratto acuminato di Papini
Benché Giovanni Papini (1881-1956) sia un grande scrittore, autore di uno dei romanzi italiani più belli del XX secolo, Un uomo finito, e persino l’auspice dell’unità dell’Europa, la sua figura è scivolata nell’ombra, tanto che oggi solo per iniziativa di piccole case editrici qualche sua opera viene ristampata. È merito della Scuola di Pitagora, nella collana «Pietas literaria» diretta da Gerardo Fortunato, la riproposta del più ampio, organico e appassionato scritto dantesco di Papini, apparso nel 1933, Dante vivo (postfazione di Sandro Gentili, pp. 348, € 25). Estraneo al metodo sia desanctisiano sia crociano, polemico verso l’idolatria accademica della filologia («come se Dante non fosse qualcosa di più d’un testo di lingua o d’un tema di filologia romanza o comparata»), Papini, da artista, cattolico e fiorentino (tre caratteristiche che egli ritiene essenziali per comprendere Dante), spezza l’immagine ufficiale del poeta nel tentativo di incontrare l’uomo vivo, quale parla attraverso le opere e i documenti, tenuto conto che della sua vita reale non sappiamo molto, né è giunta a noi una sola riga autografa. L’esito, anche in virtù dello stile sapiente e acuminato di Papini, è un ritratto di sfaccettata ricchezza: al cittadino fiorentino del Duecento si sommano il «profeta ebraico», il «sacerdote etrusco» e il teorico della necessità e dell’autonomia dell’Impero, unificati in un genio che è poetico, ma anche religioso e politico, dato che la Divina Commedia fu concepita non solo come espressione letteraria, ma come opera attiva di trasformazione del mondo.