Corriere della Sera - La Lettura
Non so di cosa parla. Che meraviglia
Ritorni Le parole della scrittrice brasiliana Clarice Lispector sono come gli assolo di Hendrix o le tele di Pollock: senza spiegazione. Una rivolta contro lo storytelling, a metà fra conscio e inconscio Il congegno Attingendo a misteriose energie «Acqua viva» trasmette qualcosa della vita del corpo: il respiro e soprattutto la pulsazione
Devo onestamente avvertire il lettore di questa recensione che non ho la minima idea di cosa parli Acqua viva, il libro pubblicato da Clarice Lispector nel 1973, a quattro anni dalla morte. E dire che non è la prima volta che leggo questo testo meraviglioso e incomprensibile. Non si può chiedergli cosa significa allo stesso modo in cui non si può chiederlo a un quadro di Jackson Pollock o a un assolo di Jimi Hendrix. Come Hendrix, Clarice Lispector porta alle estreme conseguenze il suo amore per lo strumento; come le gocce di colore di Pollock, le sue parole sembrano cadere dall’alto spiaccicandosi sulla pagina. Sono parole che non raccontano nessuna storia, che non rendono conto di nessun aspetto del mondo.
A compiti ben più impossibili la grande scrittrice brasiliana sembra aver vincolato lo sconcertante e rivelatore flusso verbale di Acqua viva. Un tenue filo logico viene pur concesso ai lettori. Una donna scrive a un uomo, un amante che forse è perduto, forse ritornerà, forse esiste solo nella sua immaginazione. Sappiamo che è una pittrice, e che non ha molta familiarità con la parola scritta («vivo la cerimonia dell’iniziazione alla parola e i miei gesti sono ieratici e triangolari»). Vuole l’attenzione di quest’uomo, lo vuole tirare a sé e nello stesso tempo contagiarlo, esplodere nel silenzio della lettura come un virus nel sangue. In ultima analisi, vuole trattenerlo risucchiandolo nella sua stessa mente, attirandolo nella stanza più segreta, lì dove ogni pensiero è ancora intriso del silenzio e del buio del corpo.
Le parole di questa Circe modernista sembrano tutte zampillare da una fonte nascosta, non sono state ancora sottomesse alla coerenza del pensiero. Frase dopo frase, sono l’espressione di una coscienza che si identifica solo con l’unità minima del tempo, quell’atomo che è l’attimo. Per questo motivo nelle sue parole non c’è un racconto e i suoi pensieri non procedono muniti di un nesso. Ogni frase è un sortilegio e un fuoco d’artificio. La cosa più simile a queste frasi, che spesso hanno la fulminante bellezza della poesia lirica, sono quei pensieri che formuliamo nei momenti crepuscolari, quando entriamo nel sonno o ne usciamo. Non stiamo sognando, e non siamo svegli: durante quelle transizioni la nostra mente parla una strana lingua, che è un singolare impasto di luce e tenebre. L’arco sintattico delle frasi è teso perfettamente, e le parole possiedono il timbro di verità degli oracoli e delle premonizioni. Ma se riusciamo a ricordarle a mente lucida, non siamo in grado di stabilire il significato di quelle parole, il motivo per cui le abbiamo formulate in quel modo.
Ciò che più colpisce in Acqua viva è il fatto che la donna che scrive si avvalga di questo stato di coscienza intermedio tra il conscio e l’inconscio come di uno strumento di fascino e seduzione. «Voglio avere», confessa a un certo punto, «la libertà di dire cose senza nesso come profonda maniera di arrivare a te». Si sta rivolgendo all’amante, ma è una scommessa che riguarda qualunque lettore. Al quale rimangono due possibilità: o mettere da parte dopo due o tre pagine il libro, come una reliquia del Novecento ormai condannata all’illeggibilità; o abbandonarsi all’esperienza, accettando di subi re a un vol t a ggi o s uperi ore quell a scarica elettrica che è sempre annidata nella lingua di Clarice Lispector, anche nei romanzi e nei racconti che sono molto più accessibili.
In un tempo in cui tutta la letteratura sembra schiacciata e impoverita dalle esigenze dello storytelling, e in nove casi su dieci il riassunto di un romanzo equi- vale a quello che si potrebbe ottenere dal romanzo stesso, mi sembra difficile immaginare che la ristampa di Acqua viva possa trovare molti complici disposti al gioco. Ma in queste cose non si può mai dire, lo spirito soffia dove e come vuole, ed è per questo motivo che, nonostante tutto, un libro del genere si ristampa.
Non c’è nulla di meglio, per prepararsi all’esperienza, dell’intervista televisiva che la Lispector concesse nel febbraio del 1977 a un bravissimo giornalista brasiliano, Julio Lerner, che seppe trasformare un’occasione colta al volo in un vero testamento. La si può facilmente trovare su YouTube. A pochi mesi dalla morte, la scrittrice appare stanca e invecchiata. Stringe fra le dita il suo pacchetto di sigarette come fosse il timone di una barca vi- cina al naufragio. Ma aleggia ancora sui suoi lineamenti l’ombra di quella bellezza che, ai tempi del suo esordio, aveva fatto parlare di una Virginia Woolf mascherata da Greta Garbo.
È così che la dipinse nel 1945 Giorgio de Chirico, durante una visita a Roma con il marito diplomatico a Napoli. De Chirico non sospettava nemmeno che solo un anno prima quella ragazza di 25 anni aveva pubblicato Vicino al cuore selvaggio, dirompente opera prima destinata a un’enorme influenza su tutta la letteratura latino-americana del secondo Novecento. In pochissimi sapevano (lei non ne parlò mai, se non in qualche lettera privata alle sorelle) che quella giovane donna era ebrea, nata in Ucraina nel 1920, e sfuggita per miracolo con la famiglia ai ricorrenti pogrom che furono come la prova generale della Shoah. Portata via nel suo fagotto di neonata, non aveva mai, letteralmente, messo piede sulla terra natìa, né mai provò bisogno di farlo in seguito. Sembra l’emblema di un’esistenza caparbiamente dedicata a trasformare il destino in scelta elettiva: a partire da quella lingua brasiliana da cui fece scaturire vibrazioni inaudite, e che amava così tanto che anche viaggiare all’estero le divenne insopportabile.
Nel corso del tempo, compose almeno due capolavori che le assicurano l’immortalità: i racconti di Legami familiari e La passione secondo G.H. Ma tutta la sua opera, così impervia e solitaria eppure così creaturale, arresa all’ineluttabile moto ondoso dell’esistere, fa pensare a una serie di esordi, a una faretra piena di frecce una diversa dall’altra. Acqua viva appartiene all’ultima stagione della Lispector, caratterizzata da libri brevissimi, accomunati da una specie di affanno, come una sfida al silenzio imminente che fa pensare, tra i suoi contemporanei, più di tutto all’ultimo Beckett. L’analogia è credibile, ma non va oltre la superficie: la verità è che Clarice Lispector non assomiglia a nessuno, nemmeno a se stessa. Così sono quegli artisti capaci di alzare sempre l’asticella tra un esperimento e l’altro.
Come accennavo, Acqua viva è una specie di trappola, un misterioso congegno seduttivo impregnato di desiderio. Attingendo a misteriose e indefinibili sorgenti di energia, l’autrice riuscì a trasmettere alla prosa qualcosa della vita del corpo: il respiro e soprattutto la pulsazione. Il suo libro palpita come un cuore: e questo bat t i to è i ns i e me un ritmo e un’aritmia: è «il profondo dell’esistenza», come scrive la Lispector, che «emerge per bagnare e cancellare le tracce del pensiero».