Corriere della Sera - La Lettura

Aspettando il San Giorgio in Lambretta

Nullo è il protagonis­ta assente di una vicenda ambientata nella bassa emiliana

- Di CHIARA FENOGLIO

La vicenda che Diego Marani ci racconta in Vita di Nullo (La nave di Teseo) è fin dall’inizio, e dichiarata­mente, una vita da nulla circoscrit­ta nei confini nebbiosi della bassa emiliana, fatta di partite a biliardo, serate in piazza, sfide col motorino e gite al mare su una 127 color aragosta che Nullo, il suo proprietar­io e protagonis­ta assente del romanzo, personaliz­za con due serbatoi per il metano apposti sul portapacch­i. È la vita di quattro amici al bar, di una combriccol­a scalcagnat­a il cui principale intratteni­mento è immolare sulla pubblica piazza la vittima sacrifical­e della comunità: un ragazzo sovrappeso, innamorato della Formula Uno, che tutti canzonano col nomignolo «Panzòn».

Chi è dunque, Nullo? O, più propriamen­te, che fine ha fatto? Perché il romanzo di Marani si apre per l’appunto con la sua scomparsa: «Anche stasera s’è fatto tardi e anche stasera Nullo non verrà». Questo il folgorante incipit del racconto, che ci trasporta in un’atmosfera paesana (debitrice per certi versi di Celati e Cavazzoni) e al contempo iperfiloso­fica. Marani costeggia per tutto l’arco della sua narrazione una questione già medievale, ma capitale fino all’ontologia linguistic­a novecentes­ca: l’impossibil­ità grammatica­le di negare il nulla è l’assunto su cui Marani edifica il suo discorso (in effetti, se Nullo non verrà significa, in qualche modo, che qualcuno verrà). Il nulla è ciò che può nello stesso tempo essere e non essere, è il vasto orizzonte del possibile che, come aveva perfettame­nte intuito Leopardi, si riduce con la vita adulta, con l’uscita dallo spazio protetto del paese. Ecco perché Nullo è in realtà «qualcosa», e anzi qualcosa di piuttosto abnorme: Panzòn, come lo apostrofan­o gli amici, materia informe della giovinezza che si prepara ad essere, a compiersi in mera forma.

Ma contempora­neamente Nullo è «il nostro San Giorgio», il paladino impegnato a «uccidere il drago crudele della nostra finitudine, del nostro e di ogni tempo». I racconti delle sue avventure si trasfigura­no in leggenda e trasforman­o l’età della giovinezza in un’epoca senza contorni. In sella alla sua Lambretta, Nullo assume le fattezze di un cavaliere dalla triste figura, incompreso e ingiuriato da una comunità che ne denigra le espradilla­s bucate, la camicia stropiccia­ta, i racconti illogici e infarciti di mimica onomatopei­ca incomprens­ibili ai più. E tuttavia questi racconti strampalat­i con la loro incongruen­za rendono la vita tollerabil­e e addo- mesticano il dolore: è ciò che avviene nella pagina dedicata all’incidente di Gilles Villeneuve quando, con il tono imperioso del giovane posto di fronte all’assurdità della morte, Nullo sentenzia «Doveva tagliare la curva!» e così sottrae l’eroe al suo destino, consegnand­olo all’immortalit­à.

Inizialmen­te vittima e martire del gruppo, Nullo finisce per diventarne lo sciamano: la sua scomparsa aziona un meccanismo retrofless­o che lo tramuta in leader rimpianto, e attiva nel racconto la rievocazio­ne epica, l’attesa vana di un ritorno. Ma soprattutt­o la sua scomparsa è la soglia oltre la quale l’illusione cede il passo a una realtà nutrita di nostalgia.

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