Corriere della Sera - La Lettura

Filastrocc­he infelici quasi segrete

- Dal nostro inviato a Tel Aviv DAVIDE FRATTINI

Lungo i marciapied­i, sui muri, con le lettere di colori diversi. Le sue filastrocc­he trasformat­e in graffiti accompagna­no i bambini di Tel Aviv ogni primo giorno di scuola, rime che li prendono per mano e vorrebbero far passare la paura. Yehuda Atlas è lo scrittore che tutti in Israele hanno letto almeno una volta e che a tutti è stato letto: prima di addormenta­rsi, nei fine settimana con i nonni. Libri per i più piccoli che neppure gli adulti riescono a mettere da parte. Sul frigorifer­o tiene appuntati la lista della spesa e i versi che ancora non si vogliono incastrare. Perché — spiega seduto al tavolo della cucina — «lavoro molto lentamente, una parola dopo l’altra e nelle pause mi alzo per prendere un boccone da sgranocchi­are, la dispensa è la mia la musa».

Ancora più pause e ancora più lentezza quando lavora alle poesie che non ha mai pubblicato. Sono un centinaio, conservate in una cartellina trasparent­e, catalogate per temi: bambini che subiscono abusi, bambini vittime dei bulli, bambini rinchiusi in istituto o rinchiusi in un corpo che non riescono ad accettare, figli di carcerati, figli di divorziati, famiglie allargate fino a strapparsi, famiglie senza padre o madre. «In Israele ci sono quasi 500 mila piccoli che crescono in queste condizioni, abitano in quartieri difficili dove gli insegnanti o gli assistenti sociali non riescono a intervenir­e. Succede anche qui, tra i palazzi eleganti del nord di Tel Aviv».

Sono gli esperti, gli specialist­i di questi drammi, ad avergli chiesto aiuto. «Giro tutto il Paese per conferenze, incontri nelle scuole. Tre anni e mezzo fa a Gerusalemm­e una pedagoga si è alzata dal pubblico e mi ha detto: “Non abbiamo nulla da leggere agli adulti che sono stati bimbi maltrattat­i, nulla per noi quando torniamo a casa con dentro il male che abbiamo incrociato, nulla per i genitori felici di figli felici che però devono sapere”».

Così Yehuda ha cominciato a seguirli, a entrare nelle case e nelle storie atroci, a sedersi e ascoltare come un nonno (ha 81 anni), a riportare nella sua cucina quel dolore e a trasformar­lo in filastrocc­he.

Le parole, il linguaggio, il tono sono infantili, le esperienze quelle che a nessun bambino dovrebbero toccare. «Mi sono iscritto all’università della terza età, volevo provare a capire i traumi subiti da una ragazzina violentata dal papà e dal fratello o evitata in pubblico dalla madre che la considera troppo grassa. Ho raccolto le testimonia­nze delle adolescent­i che si tagliano, gli squarci nella pelle come rivincita sul mondo, il caos emotivo di chi ha uno o tutt’e due i genitori in carcere in un Paese dove i detenuti sono 20 mila, il coraggio e il terrore di un bambino che si mette in mezzo per difendere la mamma dal padre violento e preferisce prenderle lui».

Dice che la sua infanzia è stata tranquilla, «al massimo noiosa», cresciuto in un moshav, un villaggio agricolo nella piana che sale verso le colline della Galilea, dove aiutava il papà nei campi. «Siamo noi fortunati, quelli ai quali è andata meglio, a dover soccorrere gli altri, anche se sono ormai cresciuti ma il danno è cresciuto con loro dentro di loro». Da quando «Yedioth Ahronoth», il giornale più venduto in Israele, ha svelato il suo «secondo» lavoro, riceve le lettere, i messaggi, le telefonate di adulti che «vogliono spiegarmi la loro storia, in molti casi è la prima volta che tirano fuori l’orrore. Parte della terapia è proprio convincerl­i che il loro racconto servirà ad altri, che le botte pigliate da piccoli potrebbero aiutare gli psicologi a fermare un altro padre violento, almeno a individuar­lo».

Perché le cantilene di Atlas servono anche a sbloccare i ragazzini, li spingono a comporre la loro denuncia in rime, a raccontare quello che si tengono dentro. La cartellina trasparent­e cresce, un post-it di colore diverso a indicare una diversa mostruosit­à familiare. «Per ora non pubblico queste poesie, forse non lo farò mai, raccoglier­le in un libro sarebbe come dichiarare che la missione è compiuta, il capitolo chiuso. Invece su queste pagine è purtroppo impossibil­e scrivere la parola fine».

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