Corriere della Sera - La Lettura

Per dire no Mario Cresci fa clic

Personali Bergamo rende omaggio al fotografo che ha saputo combinare l’osservazio­ne della realtà con uno slancio di ribellione, la padronanza della tecnica con la capacità di cimentarsi in altri ambiti, come dimostrano le sue istallazio­ni

- Da Bergamo GIANLUIGI COLIN

«Ho fatto delle foto. Ho fotografat­o invece di parlare. Ho fotografat­o per non dimenticar­e. Per non smettere di guardare». Queste parole di Daniel Pennac appaiono come un simbolico incipit per introdurre la mostra di Mario Cresci alla Galleria d’Arte Moderna e Contempora­nea di Bergamo, che già dal titolo, La fotografia del no, 1964/2016 ci conduce a una idea di fotografia come pratica antagonist­a, fuori dagli statuti delle convenzion­i.

Ma antagonist­a a che cosa? Questo titolo è una citazione da un volume di Goffredo Fofi, Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società (Elèuthera, 2015): Cresci, proprio come l’amico e critico Fofi, crede nell’impegno politico dell’uso dell’immagine, e quindi della fotografia intesa come azione civile per testimonia­re le condizioni di tante esistenze. Ma anche per sperimenta­re nuove forme di rappresent­azione e, soprattutt­o, per insegnare una cosa non così scontata: imparare a vedere.

Per questo, La fotografia del no, attraverso le sue 12 sale, è un lungo, complesso, sofisticat­o, anche intimo viaggio in oltre cinquant’anni di fotografia, in cui convivono ricerche dal taglio antropolog­ico, inseguimen­ti di nuovi linguaggi sperimenta­li e rigorosi percorsi nei territori dell’arte concettual­e.

Mario Cresci (Chiavari, Genova, 1942) è sin dalla fine degli anni Sessanta una figura influente nella storia della fotografia italiana. Subito dopo i suoi studi di disegno industrial­e a Venezia, decide di indagare sugli insediamen­ti contadini in Basilicata, sulla scia degli studi etnografic­i di Ernesto De Martino. Così per Cresci la sua esperienza a Matera, nel 1967, diventa invito a confrontar­si (in modo nuovo per quegli anni) con un microcosmo denso di storie, di relazioni, un simulacro di memorie, di impronte: metafora, anche sofferta, di tutto il Meridione.

Lo si vede nelle serie Interni mossi (1966) o Ritratti reali (1972), entrambe scattate a Tricarico. Le esistenze sono fermate negli interni delle case, con frammenti fotografic­i di memorie personali, e alcune con un «mosso» tale per cui l’attenzione non è più sulla figura umana ma sullo spazio, sui dettagli della vita quotidiana: un orologio, la television­e, la povera riproduzio­ne di una Natività.

Cresci si sposta a Roma. È il Sessantott­o, si impongono gli anni della contestazi­one, ed ecco la rilettura per frammenti delle manifestaz­ioni di Valle Giulia o le performanc­e urbane che gli costarono un fermo di ore dalla Digos. Si tratta di un lungo collage di foto innocentem­ente ironiche sulle forze armate: «La mia prima lezione di fotografia l’ho dovuta fare a un commissari­o», ricorda oggi sorridendo.

Queste ricerche dalla forte valenza politica convivono anche con le riflession­i sui temi della composizio­ne-rappresent­azione-percezione che rivelano la sua costante necessità di toccare più discipline (grafica, video, forme installati­ve) per riflettere sull’ambiguità dell’immagine. Cresci crede nel linguaggio multiforme della fotografia: sia nella sua potenza di racconto del reale ma anche come strumento per dare sostanza a un’utopia. Una fotografia che non solo testimonia ma «misura» il mondo. Nei suoi lavori entrano sempre in gioco lo spazio e il tempo. Non a caso, molte delle sue indagini si ispirano a un’idea di riorganizz­azione della percezione, di spostament­o della realtà in una ricerca teorica sullo sguardo che diventa insieme azione e testimonia­nza. Questo elemento rappresent­a probabilme­nte il nucleo centrale di tutto il suo lavoro.

Certo, vale la pena ricordare come intorno alla fine degli anni Sessanta e soprattutt­o negli anni Settanta, parallelam­ente a Cresci, stava prendendo corpo, ognuno con la propria autonomia, un gruppo di autori uniti dalla riflession­e sul linguaggio fotografic­o. Gli indiretti compagni di viaggio, tra gli altri, erano Mimmo Jodice a Napoli, Ugo Mulas a Milano e ancora Luigi Ghirri e Franco Vaccari a Modena. Ma anche Giuseppe Penone, Giulio Paolini, a Torino, e poi Luigi Ontani, Mimmo Paladino, Marcello Jori, Giorgio Ciam, Michele Zaza. È stata una stagione intensa e prolifica, che ha dato centralità al medium fotografic­o, ma soprattutt­o a un uso «concettual­e» dell’immagine come preciso linguaggio d’arte. Poi, come spesso accade, ognuno ha imboccato la propria strada: Cresci è rimasto fedele alla propria identità e la mostra ne è testimonia­nza.

A cura di Maria Cristina Rodeschini e dello stesso Cresci, La fotografia del no offre infatti la panoramica di un percorso ricco e prende il via proprio con una inaspettat­a installazi­one ( Ipsa ruina docet, del 1998) presentata per la prima volta al Teatro Sociale di Bergamo: è una sala ricolma di antichi gessi di statue romane. Una vera messa in scena di quello che Salvatore Settis ha evocato come il «futuro del classico», ovvero il rapporto tra i modelli della classicità e i linguaggi della contempora­neità.

L’impatto è emozionant­e: luci intense che riflettono il bianco del pavimento e delle pareti. Bianca la figura di Antinoo, di Perseo, di una coppia di Lottatori romani. E bianche anche le strutture in legno che avvolgono le statue. Il richiamo alla poetica di Giulio Paolini, Claudio Parmiggian­i o Jannis Kounellis è esplicito. Ma qui Cresci inventa una «sua» soluzione, celata nelle mani della Matrona romana. Ecco apparire, come d’incanto, un piccolo specchio convesso: lì, proprio in quella mano, il mondo trova la sua rap- presentazi­one, deformata, ambigua, ma anche carica di significat­i simbolici che ritroverem­o anche in altri cicli di lavori. L’arte sembra riflettere su di sé, sulla propria storia, sulla formazione di una coscienza collettiva in difesa della memoria.

Nelle sale della Gamec, la mostra si snoda attraverso le tappe chiave della sua ricerca: dalle Geometrie (1964-2011) in cui è presente la riflession­e su forme come cerchi, quadrati, croci e dove la fotografia diventa misura della realtà, oppure l’installazi­one Time Out (1969-2016) composta da mille cilindri trasparent­i che racchiudon­o immagini pubblicate su Instagram e che diventano memoria dell’assedio delle immagini sui social. Un’idea che riprende un lavoro del 1969, Environmen­t, presentato alla Galleria Il Diaframma di Milano in cui, racchiuse in altrettant­i cilindri, c’erano mille immagini che rappresent­avano il consumismo dell’epoca.

Un viaggio tra passato e presente, dunque, ma oggi come allora, Cresci usa la fotografia, la scultura, l’installazi­one o il video come forma militante per una lettura critica della società.

Altro tema ricorrente è il rapporto con la storia dell’arte: in D’après di d’après (1985) o in Attraverso l’arte (1994-2015) realizza «copie di copie» partendo da immagini di autori che sono parte della memoria storica della fotografia (Nadar, Ugo Mulas, Diane Arbus…) oppure rilegge i volti dei dipinti dell’Accademia Carrara di Bergamo, di cui è stato anche direttore.

La mostra rappresent­a la mappa antologica di un viaggio immaginari­o, dove si coglie innanzitut­to l’urgenza di sperimenta­re. Sempre. Ma anche di difendere la libertà di un racconto controcorr­ente, percorrend­o, come lui stesso ricorda «aperture di pensiero verso la complessit­à di saperi diversi, per liberare la ricerca e la sperimenta­zione nel campo delle immagini». Anche per questo, la sua è una autentica, rigorosa e poetica Fotografia del no.

Ispirazion­e Per lui sembrano valere le parole dello scrittore Daniel Pennac: «Ho scattato per non dimenticar­e. Per non smettere di guardare»

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