Corriere della Sera - La Lettura

Wilson tradito da Trump

Cento anni fa il presidente degli Stati Uniti decideva d’intervenir­e nella Grande guerra invocando i valori dell’internazio­nalismo liberale Oggi governa alla Casa Bianca un leader ostile alla strategia di cooperazio­ne multilater­ale con le nazioni europee

- Di GIOVANNI BERNARDINI

Il nome di Woodrow Wilson, ventottesi­mo presidente degli Stati Uniti, è soprattutt­o associato all’intervento americano nella Prima guerra mondiale del 6 aprile 1917. L’obiettivo proclamato da Wilson, che rimase alla Casa Bianca dal 1913 al 1921, era trasformar­e il conflitto nella «guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre» e in una pace «senza vincitori né vinti», con la creazione di un sistema multilater­ale di relazioni internazio­nali volto a trasferire i futuri conflitti dal piano militare a quello giuridico. I suoi «14 punti» dovevano disegnare un’Europa nuova, sulla base dei principi di autodeterm­inazione dei popoli, di libertà commercial­e e di abolizione della diplomazia segreta, per concludere con la creazione di una Società delle Nazioni come garante di «indipenden­za politica e integrità territoria­le tanto per i grandi Stati quanto per i piccoli». A cent’anni dalla scelta che avrebbe cambiato le sorti del XX secolo, ne discutiamo con Manfred Berg, americanis­ta e professore dell’Università di Heildelber­g (Germania), che ha appena pubblicato il volume Woodrow Wilson. Amerika und die Neuordnung der Welt («Woodrow Wilson. L’America e il nuovo ordine mondiale»).

Qual era il retroterra culturale e politico di Wilson? Da dove nascevano i suoi progetti di riordino delle relazioni internazio­nali?

«Sia il padre che il nonno paterno di Wilson erano sacerdoti presbiteri­ani. Crebbe dunque in un ambiente caratteriz­zato dalla tradizione calvinista. Fortemente religioso egli stesso, Wilson era convinto di essere uno strumento di Dio. Sebbene dimostrass­e spesso e volentieri un’alta consideraz­ione di sé, sgradevole per alcuni, non corrispond­eva al “teocrate” tratteggia­to dai suoi detrattori. Le sue idee di “patto” tra le nazioni avevano certo radici protestant­i, ma risultavan­o attraenti anche per molte persone estranee a influenze calviniste. Nato nel 1856, Wilson crebbe nel Sud degli Stati Uniti all’indoma- ni della Guerra civile. Questo ne faceva un democratic­o “per nascita”, ma non un fautore del mito eroico sudista (la cosiddetta Lost Cause). Certamente dava per scontata la supremazia bianca: era un razzista per i nostri standard, ma all’epoca le sue opinioni razziali corrispond­evano a quelle dominanti. Wilson era un intellettu­ale: prima di entrare in politica, era stato professore di Storia e rettore dell’Università di Princeton. Da governator­e del New Jersey e poi da presidente, Wilson fu un riformator­e progressis­ta i cui risultati (creazione della Federal Reserve, leggi antitrust, ecc.) sono ampiamente riconosciu­ti. Tuttavia, prima del 1914 non aveva nutrito progetti di riforma delle relazioni internazio­nali: il suo programma di internazio­nalismo liberale fu essenzialm­ente una risposta ai disastri della Grande guerra».

Wilson resta discusso: un’icona per chi crede nel multilater­alismo, un ingenuo ideologo per chi lo accusa di pericolose velleità. Qual è il suo giudizio?

«Dobbiamo fare attenzione a non cadere negli stereotipi che vogliono Wilson come un ingenuo idealista. Piuttosto, era per molti versi un realista e certamente un nazionalis­ta che tenne sempre d’occhio gli interessi degli Stati Uniti. Eppure era fortemente convinto che il vecchio sistema europeo della politica di potenza avesse condotto all’abisso della Prima guerra mondiale e che dovesse lasciare il passo a un nuovo ordine mondiale fondato sulla sicurezza collettiva, l’uguaglianz­a delle nazioni, l’autodeterm­inazione, la democrazia e il libero commercio. Perseguì questi obiettivi con determinaz­ione, ma non fu in grado di riconoscer­e i compromess­i a cui era obbligato. La sua grande tragedia fu il rigetto della Società delle Nazioni da parte del Senato Usa: una tragedia però da imputare largamente allo stesso Wilson, incapace di accettare le riserve espresse dall’opposizion­e. E tuttavia dubito che la partecipaz­ione statuniten­se alla Società delle Nazioni avrebbe prevenuto la Seconda guerra mondiale».

L’allora primo ministro francese Georges Clemenceau accusò Wilson di «candore»; il premier britannico David Lloyd George, evocando l’idealismo di Wilson e il nazionalis­mo di Clemenceau, dichiarò più tardi di essersi trovato a disagio «tra Gesù Cristo e Napoleone». Come si può distinguer­e tra ideologia e concretezz­a nella retorica wilsoniana? Quanto realmente credeva nell’applicabil­ità dei suoi principi?

«Le battute di Lloyd George e Clemenceau sono divertenti, ma non dobbiamo cedere alle caricature interessat­e. Fondamenta­lmente gli alleati non condividev­ano la fede di Wilson nella Società delle Nazioni come futura garante della pace mondiale. Essi furono piuttosto costretti ad adattarsi, dato che gli Stati Uniti erano il principale attore della conferenza di pace di Versailles. Inoltre, Wilson era estremamen­te popolare presso le popolazion­i dei Paesi alleati: al suo arrivo in Europa fu salutato come un messia da milioni di persone. Semmai, una simile accoglienz­a fece credere a Wilson di rappresent­are davvero l’interesse dell’umanità. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi che credesse fermamente alla propria retorica».

Parte della storiograf­ia riconduce l’impegno wilsoniano alla necessità di contrastar­e un altro forte disegno ideologico: quello della rivoluzion­e bolscevica, che a suo modo voleva «porre fine a tutte le guerre». Secondo lei esiste una correlazio­ne così stretta?

«Si tratta certamente di un’interpreta­zione influente ma a mio parere esagerata, poiché tende a proiettare la logica della guerra fredda in retrospett­iva. Pur diffidando dei bolscevich­i, Wilson non si impegnò in alcuna crociata contro di essi. I suoi “14 punti” contenevan­o

persino delle avance al nuovo regime al fine di mantenere in guerra la Russia. Wilson era anche riluttante a concordare con i propositi alleati di intervento diretto e in ogni caso il coinvolgim­ento statuniten­se nella guerra civile russa rimase limitato. Ritengo anche fuorviante ritrarre Wilson e Lenin come veri rivali negli anni tra il 1917 e il 1919. Il primo era il leader del Paese più potente del mondo, con un programma che dominava l’agenda internazio­nale. Lenin era un rivoluzion­ario il cui successo appariva molto incerto e che avrebbe potuto concludere la sua vita davanti a un plotone d’esecuzione. Wilson temeva che povertà e indigenza accrescess­ero l’attrazione europea per il bolscevism­o, ma era pur sempre convinto che il modello liberale avrebbe prevalso».

A molti l’avvento di Trump sembra segnare la chiusura di un secolo di interventi­smo statuniten­se nel mondo e soprattutt­o l’accantonam­ento della «relazione speciale» tra Usa ed Europa. Qual è la sua opinione?

«Certamente Donald Trump abbraccia una tradizione politica fortemente contraria all’internazio­nalismo liberale di ascendenza wilsoniana. Wilson riteneva che il sistema statuniten­se di capitalism­o liberal-democratic­o fosse un modello per il mondo e che gli Stati Uniti dovessero fornire la leadership necessaria ad assicurare un ordine mondiale fondato su principi “americani”. Al pari dei critici nazionalis­ti di Wilson, Trump ritiene che gli Stati Uniti debbano preservare la sovranità assoluta e perseguire i propri interessi nazionali senza prendere impegni vincolanti. Tuttavia il nazionalis­mo di Trump non significa necessaria­mente che gli Stati Uniti diventeran­no spettatori isolazioni­sti della politica mondiale. Trump vede le relazioni internazio­nali come un gioco a somma zero, nel quale gli Usa devono necessaria­mente rimanere l’attore più forte, in grado di dominare unilateral­mente e, se necessario, con mezzi militari. Trump non ha alcuna particolar­e vocazione a perseguire buone relazioni tra Europa e Stati Uniti, ha dichiarato il proprio disprezzo per l’Unione Europea e preferireb­be certamente trattare con ogni Paese europeo singolarme­nte. Apparentem­ente è ignaro delle ragioni sia politiche che economiche per cui gli Usa hanno promosso l’integrazio­ne europea dopo la Seconda guerra mondiale».

Per concludere, non può sfuggire la coincidenz­a che sia uno storico tedesco a parlare oggi di Wilson. D’altro canto lei fa parte di una generazion­e che più di altre ha avuto l’opportunit­à di vivere e lavorare negli Stati Uniti. Ritiene che ciò abbia avuto un’influenza nel modo in cui lei analizza passaggi fondamenta­li di storia degli Usa, e in particolar­e la vicenda di Wilson?

«Ovviamente faccio parte di una generazion­e formata dalla convinzion­e che la Germania debba rimanere fermamente ancorata alla tradizione politica occidental­e e all’Alleanza atlantica. Durante la prima parte del XX secolo, l’ignoranza della politica, della cultura e della potenza statuniten­se fu un fattore determinan­te nelle decisioni delle élite tedesche. Nel libro sostengo che Wilson volesse evitare l’ingresso nella Grande guerra. Le leadership civili e militari tedesche sottovalut­arono grossolana­mente il potere statuniten­se e optarono per la guerra sottomarin­a illimitata all’inizio del 1917, lasciando Wilson senza alternativ­e. Sostengo anche che Wilson non «tradì» i tedeschi alla conferenza di pace, ma che al contrario la Germania beneficiò del suo intervento. Ciò detto, ritengo che sia necessario superare vecchie logiche di accuse reciproche per cercare piuttosto di comprender­e come Wilson sia stato una delle figure chiave della storia del XX secolo».

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