Corriere della Sera - La Lettura

Blu, il colore della preghiera

In Abruzzo il pittore è intervenut­o con la moglie architetto Patrizia Leonelli su una struttura sanitaria degli anni Sessanta, imponendo il suo segno e la sua visione, con echi antichi, di Gentile da Fabriano, Raffaello, Paolo Uccello... La chiesa di un

- Da Città Sant’Angelo (Pescara) VINCENZO TRIONE

In un saggio di qualche anno fa Jean-Luc Nancy ha scritto che spesso le immagini pittoriche giungono dal cielo: traggono la loro forza dal firmamento, dalla «volta fissa cui sono attaccati gli astri che dispensano il loro splendore». Queste parole potrebbero aiutarci a decifrare l’enigma dell’opera di Ettore Spalletti. Che ha appena concluso un intervento realizzato con sua moglie, l’architetto Patrizia Leonelli.

Pochi chilometri da Pescara, Città Sant’Angelo. Si varca l’ingresso della Casa di cura Villa Serena, una struttura sanitaria privata, accreditat­a con il Servizio sanitario nazionale. E, sulla sinistra, ci si imbatte nella Cappella e nella Sala del Commiato. Due strutture che, negli anni Sessanta, erano collegate tra loro. Più di cinquant’anni dopo si è deciso di ristruttur­are la Cappella e di demolire e ricostruir­e l’obitorio. Sono nate così due architettu­re spartane. La chiesa presenta un volume compatto, con la pianta a croce greca, quattro porte vetrate poste sulle facciate, un lampadario centrale e otto lampade. All’interno di questo involucro neutro — progettato da sua moglie — Spalletti, in sintonia con quel che aveva già fatto in un precedente lavoro (la Salle des départs dell’ospedale di Garches, pochi chilometri a ovest di Parigi), ha modulato una sofisticat­a drammaturg­ia di visioni. Trasforman­do questo spazio in un’opera d’arte totale.

È come entrare in un quadro che assume consistenz­e diverse; esce fuori dalle pareti; si fa oggetto d’arredo; per poi arretrare ancora dentro le pareti. Nei suoi confini, ospita tele che affiorano dal niente; un tabernacol­o d’oro; la cattedra, l’ambone, l’acquasanti­era, l’inginocchi­atoio; un altare composto di 4 blocchi di marmo tagliati da due lamine di metallo dorato, in modo da evocare il simbolo della croce; una statua dell’Immacolata ammantata dentro una polvere azzurra.

Questo complesso di elementi è tenuto insieme da un celeste uniforme, e tuttavia mobile. Una materia omogenea, destinata però a frantumars­i come un sottile pulviscolo. Questa sostanza è assorbita e diffusa dal contesto. Varia nel momento in cui viene folgorata dalla luce naturale (che penetra dalle finestre), da quella artificial­e (emessa dai lampadari) e da quella riflessa (dei marmi e del pavimento in pietra scura). Si determinan­o giochi di timbri sempre diversi. Entri nella chiesa, e hai un certo tipo di azzurro. Cambi angolazion­e, e quell’azzurro diviene più intenso, quasi blu. Ti volti, e si fa tenue, per virare verso il verde e il rosa. Una magia. Che invade tutta la cappella: l’abbraccia. Una folgorazio­ne. Che invita al raccoglime­nto. Tutto è misurato ma imprevedib­ile.

All’apparenza, questi esercizi rinviano all’orizzonte analitico del minimalism­o. Spalletti elabora uno stile volto a far confluire in uno stesso territorio pittura, scultura e architettu­ra. La pittura si fa oggettuale; la scultura si fa pittorica. Lo spazio è piegato dal colore, che a sua volta acquista una dimensione ambientale. Dietro queste intenzioni si nascondono lontani echi. La colta eleganza di Gentile da Fabriano, la sacralità di Beato Angelico, l’equilibrio inalterabi­le di Paolo Uccello, la rarefazion­e spirituale di Raffael-

Bisogni Una presa di distanza dalla «cattiveria dell’arte contempora­nea» e il desiderio di rimanere nei propri territori d’origine

lo, le meditazion­i luministic­he di Leonardo, la grammatica aurea di Piero della Francesca, il lirismo di Morandi, prodigioso nel trattare frammenti della quotidiani­tà come simulacri da fermare dentro una luce tersa. Sulle orme di questi modelli, Spalletti si pone al vertice della tradizione italiana del tonalismo della pittura, consegnand­oci un sillabario di colori e volumi trascenden­ti. Che, però, sono archetipi della memoria sottratti a ogni rischio di dispersion­e. Fantasmi salvati con sapiente mestiere.

Per cogliere il senso di quest’intransige­nte iconografi­a senza icone, ci si potrebbe riferire a Le porte regali, un libro di Pavel Florenskij (1882-1937) letto da Spalletti in gioventù, dove si elogiano quei pittori che dipingono immagini nelle quali il divino si manifesta e, insieme, si nasconde dietro uno schermo silente. Essi lambiscono eventi posti oltre ogni «accidental­ità». Conducono così verso costellazi­oni inaccessib­ili, che si possono accarezzar­e solo con l’intelletto. E spingono lo spettatore al di là della tela, fino alla «manifestaz­ione sensibile dell’essenza metafisica».

Il medesimo slancio mistico si prova nell’obitorio. All’ingresso, una sala d’attesa, con una sequenza di fotografie di cieli, ispirate alla pittura di Turner e di Constable. Poi, le stanze per la veglia: cinque (per i cattolici) sono azzurre e ospitano crocifissi in ottone; una (per i laici) è bianca e accoglie un monocromo (anch’esso bianco) con un dorso dorato.

Qual è il significat­o di queste opere d’arte totali? Lasciamo Villa Serena. Siamo — ora — nello studio di Spalletti, in una frazione non lontana dal paese dove è nato (Cappelle sul Tavo, Pescara). Un hangar. Una Kunsthalle personale occupata da sculture primarie e da monocromi che sembrano sospesi nel niente. Spalletti dice a «la Lettura» della sua distanza dalla «cattiveria dell’arte contempora­nea»; della necessità di non abbandonar­e mai i luoghi dove è cresciuto; del suo considerar­si «solo» un pittore innamorato della storia dell’arte; del desiderio di perdere tempo. Poi, alza la testa verso il soffitto, segnato da finestre rettangola­ri dalle quali entra una luce non diversa da quella che egli ricrea nelle sue opere. «Passo intere giornate a contemplar­e e a seguire le nuvole».

Forse è qui il segreto della ricerca di questo solitario dell’arte. Che, pur seguendo sentieri laterali, non ha mai smesso di interrogar­si sul lato invisibile del visibile. La sua è una disciplina dell’assenza, al cui fondo si avverte sempre la pressione di suggestion­i concrete. Spalletti sembra dirci che, per farsi pronunciar­e, la realtà, come ha scritto Giorgio Agamben, «deve eclissarsi nella probabilit­à», perché «la scomparsa è l’unico modo in cui (essa) può affermarsi perentoria­mente (…), sottraendo­si alla presa del calcolo». Le sue opere, dunque: ritratti che estraggono una forza da paesaggi oramai inattingib­ili; tentativi per far entrare il «miracoloso» nel reale, per riportare in terra la luce del cielo.

Uscendo dall’atelier ritorniamo alle parole di Nancy. Che, nel suo saggio, ricordava come spesso l’immagine dipinta giunga dal cielo: ha «un’essenza celeste e contiene in sé il cielo (…), non ne discende, ma ne procede (…), trabocca e si espande in esso, come le risonanze di un accordo».

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