Corriere della Sera - La Lettura

Schermi tv e catering Altri riti per l’addio

- Di LAURA CAMPANELLO e DANIELA MONTI

Radicate in Spagna e Francia, le Sale del commiato e le Case funerarie si diffondono in Italia

Un venerdì pomeriggio di marzo. La Casa funeraria a Baggio, periferia di Milano, ha tutte le stanze occupate. Nella Sala del commiato, al piano terra di un edificio sobrio e squadrato, si è conclusa una cerimonia: la bara viene caricata sul carro funebre, il prete — giunto insieme ai familiari del morto — si allontana, seguito dalla ventina di partecipan­ti al rito. Al primo piano, lungo un corridoio con salottini in pelle bianca, si affacciano le suite: un cartello accanto a ciascuna porta indica il nome del defunto che occupa la stanza. All’interno, altri divani che si affacciano su una sala più raccolta ed essenziale, dove si trova la bara aperta: pareti tinte pastello, una croce (altre immagini o oggetti per chi non è cattolico), seggiole. Ad accompagna­re le voci, musica soffusa scelta secondo i gusti del morto: si tratta di chiudere il cerchio breve o lungo di una vita intera, fatta di valori, passioni, relazioni. Un ex pilota d’aerei ha chiesto Volare come ultima colonna sonora, per morire com’era vissuto.

Al terzo piano dell’edificio c’è il bar: frigorifer­i con le bibite, macchina per il caffè espresso e, accanto, i tavoli dove ordinare il catering per il pranzo o il rinfresco da offrire, a discrezion­e dei parenti, ai partecipan­ti alla veglia funebre, parentesi di conforto — forse di effimero svago —, un ritorno alla vita mentre ancora la morte chiede presenza e impone dolore. tenne al 6. Chi entra guarda gli schermi, poi imbocca l’ascensore e sale al piano indicato. La piccola stanza che custodisce la bara aperta, all’interno di ciascuna suite, ha una porta che scatta digitando un codice numerico: è il limite oltre il quale è ammesso solo il personale di servizio. Oltrepassa­ta la porta, si apre un reticolo di corridoi e locali tecnici controllat­o da un sistema di telecamere a circuito chiuso. Le salme vengono lavate, ricomposte, vestite. Su un carrello ci sono flaconi di shampoo a secco, pettini, pennelli per il trucco. «I parenti portano una foto, facciamo il possibile per restituire il defunto all’immagine che vogliono ricordare», dice uno degli infermieri. Ci sono le celle frigorifer­o, la «stanza fredda» con i lettini refrigerat­i. Carrelli automatizz­ati consentono al personale di spostare le salme senza mai toccarle.

Le Case funerarie sono i prototipi di una nuova ritualità. Manca ancora una normativa nazionale: alla Camera c’è un disegno di legge in attesa di discussion­e. Qui si consuma il tempo breve fra il fine vita e la sepoltura: quella parte cioè — a metà fra esistenza e non esistenza — ritenuta residuale, scomoda, faticosa.

Nelle città, anche di piccole o medie dimensioni, diventano sempre più rare le camere ardenti allestite nelle abitazioni (con l’obbligo di riordinare la casa per gestire l’accoglienz­a, allontanan­do i bambini, «perché non vedano e non ricordino»), così come i cortei funebri, simbolo della partecipaz­ione corale e della «messa in scena» pubblica dell’addio: come si muore e come si vive l’ultimo saluto non è più un problema collettivo. Le stanze e le suite della Casa funeraria — che permettono ai parenti del defunto di modulare, in base alla possibilit­à di reggere fatica e dolore, quando essere presenti senza che questo neghi ad altri di sostare con la salma — con la loro privacy da tutelare raccontano la svolta privatisti­ca dell’evento funebre. Ines Testoni, direttrice del Master in Death Studies & The End of Life all’Università di Padova, le descrive come «salotti non più civici, in cui anche il ricordo del defunto diventa un fatto privato. I corpi, poi le ceneri dei genitori nelle urne custodite dentro casa, diventano proprietà dei figli, negando alla comunità la possibilit­à di un dialogo che continui oltre la morte».

La quasi totalità dei decessi oggi avviene in ospedale. Le camere mortuarie — tranne in rare situazioni o là dove della vita ci si prende cura fino alla fine e la fine comprende il tempo del commiato — sono spoglie, ricavate in spazi angusti e marginali, dove le bare sono separate da paraventi recuperati da studi medici in disuso e l’accesso ha orari rigidi e limitati. Sono, in fondo, la dimostrazi­one che la medicina di fronte alla morte sente di avere fallito: insieme al defunto, nascondono i dolenti, coloro che piangono per lui, straziante pietra dello scandalo.

Di fronte a questa realtà, trovare risposte «tutto compreso» allo spaesament­o prodotto da un lutto è una via d’uscita: se le Case funerarie funzionano, significa che hanno intercetta­to un bisogno che nasce da un analfabeti­smo di ritorno, dal trovarsi orfani di fronte a un evento spiazzante.

«La morte — riassume il filosofo Salvatore Natoli — non è più celebrata: è socialment­e non rilevata e come tale è pressoché informale o, se formalizza­ta, lo è nei termini aziendali dell’agenzia mortuaria o in quelli burocratic­i della procedura. Il moderno ha sciolto progressiv­amente i vincoli ma nel contempo ha fatto apparire una folla solitaria, dove ognuno cerca la propria identità».

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